L’unico scopo della sua travagliata esistenza di postino di paese e degli sconfinati dintorni era la caccia autunnale dei colombacci da appostamento fisso. Il palco, cioè un capanno costruito in mezzo ai boschi su un quercione lungo la principale direttrice migratoria, era la sua seconda casa. L’accudiva amorevolmente tutto l’anno, insieme alle circostanti piante di buttata, per non farsi trovare impreparato quando la prima manciata di puntini neri si fosse materializzata sull’orizzonte boscoso della vallata.
Anito trascorreva le sue domeniche di “giovanotto invecchiato”, o come si dice oggi di single, ad addestrare i volantini, cioè una dozzina di piccioni domestici, a compiere le più allettanti evoluzioni alate per attirare l’attenzione dei branchi di passo prima di rientrare compatti alla base. Per poi convincerli a buttarsi a tiro utile manovrando le racchette, cioè tirando lo spago di un posatoio mobile per indurre un colombaccio selvatico da richiamo a svolazzare invitante, come se staccasse una ghianda dal gheriglio. In assenza di figli e nipoti, allevava amorevolmente i colombacci da richiamo prelevati quasi implumi dai nidi scoperti in estate dopo i lunghi e pazienti pedinamenti dei genitori. Li imboccava premurosamente soffiandogli i chicchi di granturco nel becco tenuto socchiuso tra due dita, contandoli secondo un suo pignolo ma collaudato schema nutrizionale, che teneva conto perfino del tempo e delle fasi lunari. Come figlioli, li aveva anche battezzati, secondo una sua personale e vaga distinzione fra i sessi, con nomi maschili, ma terminanti al femminile, tipo Enea, Leonida, Andrea, Mida, per mascherare eventuali errori nella problematica attribuzione del sesso: peraltro irrilevante ai fini del loro ruolo di zimbelli. Il suo colombaccio da richiamo preferito si chiamava Franco Maria, eletto al rango di suo confidente spirituale.
Il postino si era da anni accordato con l’anziano direttore delle Poste Centrali, in città, che gli consentiva di posticipare i tradizionali quindici giorni di ferie estive alle prime due settimane d’ottobre, periodo canonico per il passo dei colombacci, chiudendo anche un occhio quando consegnava la corrispondenza nei dopocena delle restanti due settimane, in cambio di un bel mazzo di colombacci e di qualche paniere di porcini.
Quando in primavera il direttore andò in pensione, il postino preoccupato corse a presentarsi al giovane e sconosciuto successore, sperando di convincerlo a mantenere la sua consolidata abitudine di usufruire delle ferie in autunno per celebrare il cerimoniale d’assunzione della sua droga venatoria.
Bravo! Finalmente qualcuno che scagliona le ferie – si complimentò il
suo superiore. Libero da impegni familiari e anche lui cacciatore, gli raccomandò di telefonargli appena sarebbero comparsi i primi colombacci. Anzi, potevano cominciare ad affiatarsi in occasione della pre-apertura settembrina alle tortore: - Che, se non lo sa, sono columbidi, cioè della stessa famiglia dei colombacci. – E cominciò a sciorinare nomi in latino. Il postino non lo sapeva, ma gli assicurò che avrebbe costruito un appostamento fa-vo-lo-so nel ginestraio dell’Apparita, fra due vaste coltivazioni di girasoli, abitualmente sorvolate dalle tortore che, trascorsa la notte nei boschi circostanti, planavano confidenti a beccare i semi delle gialle corolle. Era la fine di giugno, e girando in motorino per il suo lavoro tra le frazioni, sempre con un occhio al cielo ed uno alla strada, aveva ricevuto quotidianamente conferma di un arrivo eccezionale di migratori primaverili. Usava il motocarro solo in autunno per trasportare l’armamentario al palco, per non sbattere troppo l’alata figliolanza.
- Se agosto non ci rovina la piazza con troppi temporali, caro direttore, quel giorno porti parecchie cartucce. Si divertirà! -
Continuarono a fantasticare e si salutarono abbracciandosi come due vecchi conoscenti.
Il postino tornò contento per aver ricevuto in sorte un superiore intelligente, istruito, affabile e soprattutto provvisto di porto d’armi, come raccontò la sera agli amici nel bar.
In verità, la preapertura alle tortore non riusciva ad entusiasmarlo. Innanzi tutto, per l’invasione dei cacciatori forestieri che – sparavano – a – tutto, compresi quei rari colombacci stanziali (peraltro legalmente) preziosi sia come riproduttori per rifornire (peraltro illegalmente) le sue racchette, sia come inimitabili allettamenti naturali per i cospecifici in transito. Per occupare con i capanni i posti reputati migliori, i più fanatici arrivavano addirittura una settimana prima, presidiando inequivocabilmente i siti prescelti con tende da campeggio, fuoristrada, campers, roulottes. La quieta campagna diventava come un’immensa e chiassosa fiera di S. Lucia, patrona del paese. Gli automezzi sparsi per stradoni, viottoli e sentieri gli sbarravano le abituali scorciatoie percorse per distribuire la corrispondenza alle frazioni, risparmiando carburante. Se contestava il sopruso, veniva tacciato di prepotente se non addirittura di mercenario assoldato dalla concorrenza. Ci sarebbe stato di che compromettersi, come il giorno che si azzardò incoscientemente a partecipare alla duplice preapertura: duplice nel senso che per lui fu la prima e l’ultima volta.
Per Anito la caccia era infatti una realtà personalissima ed intima, un rifugio per isolarsi da una realtà amara e cattiva. Saliva nel palco come in una cappella personale, dove poteva anche pregare in pace, come in una chiesa deserta, anziché alla messa domenicale o, peggio, intruppato in processione.
Costruito la sera prima un capanno nell’ultimo francobollo di terreno ancora disponibile,il postino vi aveva trascorso la notte, per scoraggiare i tentativi di occupazione abusiva. All’alba, ai primi spari alle irraggiungibili cornacchie, si riscosse insonnolito e uscì per fare i suoi consueti bisogni controvento e distante dal capanno. Dove ripiombò con i calzoni a mezz’asta, sentendo un intruso che sfrascava per occuparlo.
Vedendosi arrivare addosso quella furia seminuda, il ragazzotto in tuta mimetica abbandonò il fucile e si fiondò fuori, abbattendo mezzo capanno e si dileguò urlando :
- Aiuto, mi vogliono violentare!
Anito rinunciò a terminare le sue abitudini mattutine e prese a ricostruire alla meglio il capanno demolito. Attaccò il fucile abbandonato ad un vicino perastro, per smentire qualsiasi accusa di furto, mentre intorno infittiva il crepitare della fucileria.
La potenza di quella controaerea riuscì ad abbattere perfino uno smaliziato colombaccio stanziale che sorvolava il fronte ad una sperimentata quota di sicurezza, rivelatasi insufficiente.
Confidando nella stretta parentela fra tortore e colombacci, Anito sistemò su una racchetta rizzata a mezzo tiro uno dei piccioni impiegati sul palco come volantino e la collegò con uno spago al capanno. Dove era appena rientrato quando, sentendo avvicinarsi un vociare concitato, sgusciò fuori carponi:
Ecco il mostro, lo riconosco! – Urlò il ragazzotto di prima ai due carabinieri che l’accompagnavano.
Il brigadiere scoppiò a ridere: - Allora il mostro sarebbe lui? Ma ci faccia il piacere…-
L’equivoco fu chiarito ma, per non fare il viaggio a vuoto, i carabinieri inflissero una multa salata al ragazzotto per mancata custodia dell’arma, invitandolo a seguirli in caserma per controllarne il numero di matricola con il comando provinciale. Intanto la fucileria, rarefattasi al passaggio delle forze dell’ordine, (alzi lo schioppo chi non ha la coscienza sporca) era ripresa con accresciuto vigore e i cartuccioni sparati con canne prolungate e strozzate al massimo colpivano le tortore a distanze siderali. Distanze di gran lunga superiori a quella prescritta dalla legge fra capanni contigui. Infatti, appena il postino tirò lo spago della racchetta, il piccione svolazzante fu colpito dal fuoco cosiddetto amico dei cacciatori vicini: che presero poi a litigare furiosamente per contendersi la preda che starnazzava attaccata allo spago della racchetta.
I rivali si ritrovarono solidali a fronteggiare le furibonde proteste del postino:
Così impari a mettergli il giubbbetto arancione…
Bisognerebbe proibire i richiami vivi, provocatore!
Come solitamente avviene in analoghe circostanze, alla fine regalarono una scatola di cartucce ciascuno al postino che, abbandonate la baracca e il burattino defunto, decise di tornarsene a casa a mani vuote, allorché l’unica tortora abbattuta gli fu scippata da un missile camuffato da cane da riporto.
Più che la giornata di caccia rovinata, lo rattristava la sorte toccata al piccione allevato con tanta premura. Nella colombaia, consolò gli ignari superstiti con una razione supplementare di becchime, come aveva fatto con i loro colleghi rientrati spaventati la volta che un falcaccio ne aveva ghermito uno in volo di addestramento:
Fatti rivedere quando posso medicarti, delinquente! – gli aveva urlato dietro, agitando il pugno. Solitamente invece, appena avvistava un rapace malintenzionato, sporgeva la testa dalla finestrella del palco con un urlaccio, ricorrendo ad argomenti più convincenti solo se il predatore non smetteva di roteare.
In fondo, però, disertare quella caccia cosiddetta duplice, non gli dispiaceva più di tanto.
Il suo mondo di cacciatore era quello che abbracciava con lo sguardo dal palco: un panorama sconfinato e tutto suo, arcinoto nei dettagli; un silenzio pacatamente rassicurante, rotto da rari e previsti messaggi (l’eco delle lontane coppiole della concorrenza, il ronzio di un aereo in quota, lo scampanio del mezzogiorno sulle ali del grecale); i rimproveri e i complimenti rivolti ai suoi figliocci, i volantini, che si storcevano il collo sul posatoio per scrutarne l’espressione; il prosciutto tagliato meccanicamente sulla fetta di pane, senza staccare lo sguardo dal cielo neanche per raccattarne un pezzetto caduto; i pioli traballanti della vetusta scaletta che si sarebbero rotti solo a guardarli: invece erano sempre lì, anno dopo anno, abbracciati dagli altri rami ancora vivi.
Ereditato dal padre guardiacaccia come unico bene di famiglia, per Anito quel palco rappresentava uno scrigno ricco di ricordi, di sogni, di fantasie e di speranze; un rifugio dove raccogliersi per pensare e qualche volta per pregare, senza la preoccupazione di lasciarlo in buono stato ai figlioli, che per il suo confuso e minoritario corredo ormonale restavano solo un consapevole e sofferto tabù.
Tuttavia, deciso ad ingraziarsi il nuovo direttore, il postino avviò le esplorazioni per individuare i campi maggiormente frequentati dalle tortore. Ogni tanto sorprendeva qualche ladruncolo di frutta e rispondeva ridendo al suo imbarazzato saluto: - L’estate è la mamma dei poveri. –
Disegnò perfino una piantina della zona, coprendola con un reticolo di quadratini corrispondenti ciascuno ad un potenziale capanno. Dopo un paio d’ore di osservazione, scriveva dentro ad ogni quadratino il numero delle tortore transitate a tiro utile. Dopo quindici giorni, la media dei quadratini non superava la diecina di uccelli ciascuno: c’era poco da fare classifiche! Ma la speranza che covava nel cuore si concretizzò il giorno che si piazzò di vedetta nel ginestraio dell’Apparita. Infatti contò quasi una cinquantina di uccelli solo nella prima ora e oltre una sessantina nell’ora successiva. Il totale a tre cifre debordava dal quadratino e non poté trattenersi dal telefonare entusiasta al direttore: - Sopra all’Apparita c’è un tetto di tortore!- - Vengo a controllare – replicò lui, perché aveva ricevuto buone notizie anche dal suo paese natale, nelle Marche.
Due domeniche antecedenti l’apertura eccoli tutti e due, seduti dietro un ciuffo di ginestre, naso all’aria, col direttore estasiato che puntava un bastone contro gli uccelli facendo pum-pum con la bocca, come un ragazzino, finché non esclamò ridendo: Questa è una miniera di tortore: ho già finito le cartucce… -
- Per forza, le arriva tutte di seconda canna! Le faccia entrare a tiro con calma. - Decisero insieme dove, come e quando Anito avrebbe piazzato il capanno alla vigilia della preapertura.
- Stia tranquillo, penso a tutto io - disse stringendo la mano al direttore; che ogni sera lo convocava a rapporto, appena usciva dall’ufficio. chiamandolo sul cellulare: che il martedì squillò a lungo invano.
Dopo cena, il postino richiamò il superiore con voce accorata: - Ho visto le sue chiamate sul telefonino, mi scusi tanto, ma ho fatto tardi all’Apparita per costruire il capanno per domenica.
Di già? Ma se mancano ancora cinque giorni! -
Caro direttore, è meglio aver paura che buscarle – replicò il postino, che
si era con preoccupazione accorto delle prime pattuglie di cacciatori forestieri in perlustrazione. Quella mattina aveva scoperto una roulotte già accampata a meno di un chilometro dalla loro “miniera” e terminato il lavoro, senza pranzare, era corso al ginestraio per costruire il capanno. Appena in tempo, perché per la strada dell’Apparita incontrò due macchine e un camper a passo d’uomo e con i finestrini affollati di facce in esplorazione.
Erano le avanguardie dell’invasione, che andò sempre più lievitando durante quella settimana di passione. Anito riuscì, dapprima con le buone, a sfrattare un abusivo che gli aveva occupato il capanno.
- Comodo trovare la pappa scodellata? – gli aveva soffiato in faccia con una grinta da far cascare a chiunque il pane di mano – Levati dai coglioni!
Si rendeva pertanto indispensabile presidiare l’appostamento giorno e notte. Ma come? Il direttore gli avrebbe certamente concesso i cinque giorni di ferie anticipate, quanti ne mancavano all’apertura, ma non intendeva assolutamente intaccare il gruzzolo autunnale, peraltro ancora da riconfermare ufficialmente.
Rimuginando, gli tornò in mente una notizia sentita qualche tempo prima nel bar, cioè che i più facoltosi cacciatori stipendiavano gli extracomunitari perché tenessero occupato il loro capanno in anticipo, anche con turni notturni. Si parlava di compensi di due o tre volte superiori alla sua modesta paga quotidiana, da moltiplicarsi per cinque giorni e cinque notti e per di più non detraibili fiscalmente. Assurdo.
Però avrebbe potuto provare con una donna, sicuramente noleggiabile più a buon mercato, come sapeva di certe badanti assoldate in nero da qualche paesano per i vecchi infermi. Meglio se zoppa, mezza cieca o comunque malandata, perché l’usato costa meno; e magari grassa, col fiatone, così non avrebbe disertato la postazione. A proposito di usato, pensò di chiedere informazioni, la sera stessa, ad una professionista di colore che esercitava a tempo pieno lungo la strada provinciale.
Imbarazzato per l’insolito approccio, si protese dal sellino verso una scultorea nigeriana: - Mi scusi tanto se la disturbo, sora troia, non conoscerebbe mica..- e le espose le sue esigenze. Siccome quella mai aveva messo in discussione le più strampalate perversioni della sua eclettica clientela, chiamò al telefonino una sua anziana collega, ormai in pensione per sopraggiunti limiti di peso e di età, ci parlottò ridendo nel loro idioma ed infine porse il cellulare al postino: - Zulema parlare bene italiano –
Si accordarono sul prezzo e la mattina dopo Anito l’attese alla fermata fuori del paese, perché la gente non pensasse di lui peggio (o forse meglio?) del solito: era la prima volta che pagava una prestazione occasionale femminile. Quando vide Zulema calarsi ansimando dal bus, fu tentato di ridurle il compenso concordato, perché si sentì quasi imbrogliato; ma ci rinunciò quando la badante, per tutta risposta, gli voltò le spalle per consultare l’orario del ritorno.
Per farla entrare, dovette slargare l’accesso al capanno. Mentre le forniva le poche spiegazioni necessarie, Zulema gli accarezzava un ginocchio. Fu costretto infine ad alzarsi in piedi per scoraggiare le sempre più audaci profferte amorose; ma quella gli allungò una mano sulla cintola: - Stai tranquillo, è tutto compreso…- Allora Anito schizzò fuori come un ranocchio, promettendole di tornare due volte al giorno per il vettovagliamento. Insieme al primo pasto, le regalò due materassini nuovi di gomma piuma, perché su uno solo traboccava e li stese dentro il capanno per la notte. Con goffa insofferenza, riuscì a divincolarsi dal collaudo del giaciglio tentato dalla tenace Zulema; che alla fine fece la diagnosi e gli chiese scusa con inaspettata dolcezza.
Chiariti i reciproci rapporti, diventarono amici. Anzi il postino cominciò a provare per quella donnona un’insolita anche se pallida attrattiva mista a compassione, e si soffermava a guardarla mentre scoperchiava divertita tegami e pentolini sulla tovaglia distesa fuori dal capanno. Battendo le mani con infantile meraviglia, contraccambiò le paste del bar sfiorandogli le guance con le labbra: come si fa con il fratello maggiore.
La sera del sabato, vigilia della preapertuta, restò a cenare con la badante che l’informò inorgoglita di aver respinto diversi assalti, anche notturni, della concorrenza, rassegnatasi infine ad assediare il ginestraio dell’Apparita con una corona di capanni costruiti alla distanza prevista dalla legge.
Dopo il dolce e il caffè caldo dei thermos, il postino consegnò a Zulema una busta con il compenso pattuito, rimpinguato da una lauta mancia e nel ricambiarle la cordiale stretta di mano l’attirò a sé per sfiorarle con le labbra una guancia: come si fa con la sorella minore.
Le rammentò infine di sgombrare velocemente la postazione la mattina successiva, prima dell’alba, perché aveva un ospite importante. L’avrebbe avvertita del loro arrivo lampeggiando prima con i fari lunghi e poi con la pila.
Il direttore insonne richiamò l’insonnolito dipendente anche dopo mezzanotte per la riconferma dell’orario dell’ appuntamento. Ormai si davano del tu.
Prendi solo fucile e cartucce, perché al desinare provvedo io. –
Allora ti porterò un vino speciale
Ma il postino, almeno quel vizio, non l’aveva. Appena l’auto del servizio postale si fermò sotto casa, Anito mise in tavola i bricchi del latte e del caffè accanto alla torta e al vassoio dei dolci.
Facendo allegramente colazione, il direttore gli assicurò (-Assolutamente sì-) le ferie in ottobre lasciandogli intendere che avrebbe chiuso almeno un occhio per il resto del mese. Caricata la macchina con una mole imponente di vivande, cartucce e speranze si avviarono verso il capanno dell’Apparita.
L’ultimo lampeggio della pila del postino illuminò la sagoma ballonzolante della badante che svaniva nella nebbiolina dell’alba, con i materassini arrotolati sotto le braccia. Senza rispondere alle invidiose ed acide osservazioni dei capannisti vicini (-Arriva il signor padrone!-) depositarono il carico davanti all’ingresso del fa-vo-lo-so appostamento e si accinsero ad entrare.
Non appena i loro occhi ricevettero la conferma dei sospetti già avanzati dai rispettivi nasi, balzarono disordinatamente indietro e il capanno rovinò sulla nauseabonda moquette spalmata sul terreno dalle cacche di Zulema, schiacciate dai materassini.
Il fetore era insopportabile e insieme alla luce del giorno, stavano arrivando nuvole di mosche, mosconi, tafani, vespe e zanzare.
- Ci hanno fatto un dispetto! – esclamò accorato il postino che, imprecando a squarciagola , prese ad accusare gli incolpevoli cacciatori vicini nonché le loro inconsapevoli congiunte, dell’inaudito sopruso perpetrato ai loro danni.
Quelli risposero con le prime schioppettate alle tortore deviate verso i loro capanni dai due spaventapasseri che si scalmanavano nel ginestraio dell’Apparita.
- Cerchiamo di salvare il salvabile… - mugolò il direttore congestionato che, inghiottendo fiumi di saliva, attaccò a rizzare una parata di fortuna sottovento, il più lontano possibile da quella discarica a cielo aperto. Alle vibrate e legittime proteste del vicinato (-Occhio che vi impalliniamo-) per l’arbitraria riduzione della distanza canonica fra capanni contigui, il postino scoraggiato prese mestamente a raccattare le masserizie. Tornarono a capo basso alla macchina bersagliati da scherni e dileggi.
Avete già finito le cartucce?
Macché, vanno a portare i morti in frigorifero…
Sbrigatevi a levarvi di torno, rompigloria.
In auto, neanche un commento. Nell’aiutare il direttore incupito a caricare in fretta e furia nel portabagagli anche un paniere con la colazione, perché in un paio di ore avrebbe raggiunto le sue abituali zone di caccia marchigiane improvvidamente tradite, meno ricche di selvaggina ma anche di puzze, il postino esalò un invito speranzoso:
Allora ti aspetto ai primi di ottobre. Vedrài, per i colombacci ho un capanno davvero fa-vo- ….
-Lo- so! - L’interruppe il direttore che, calcando su un gelido lei, lo fulminò – Invece lei lavorerà tutto ottobre – e lo piantò impietrito in mezzo alla strada.
Si trascinò a casa con la tremarella nelle gambe e si buttò sul letto. Avvampava di calore, ma sudava freddo. Si misurò la febbre. Con una morsa allo stomaco, non toccò cibo. Disperato, Anito, cercò conforto tra i suoi complici, raccontando l’improvvisa sventura alle racchette e ai volantini. Sospirò, dando ragione al vecchio stradino Priamo quando l’ammoniva:
- Guardati da medico malato
da eccetere di notai
di chi sente due messe per mattina
dalle osterie nuove e dalle puttane vecchie.-
Prelevò dalla voliera Franco Maria, il suo colombaccio preferito, sistemandolo in racchetta, preparò il tascapane e andò a passare la notte nell’abbraccio affettuoso del palco. Prima di piazzarlo sulla rastrelliera, governò Franco Maria soffiandogli nel gozzo una razione doppia di granturco e qualche chicco traboccò dal becco semiaperto, piovendo in terra da una fessura tra le tavole.
- Se li risputi ti strozzo – gli fece Anito, carezzandogli il collo con due dita, in tono dolcemente sommesso. Un tono ben diverso da quello minaccioso usato dal suo povero babbo le rare volte che l’imboccava. Anito si sedette e con la fronte appoggiata sulle ginocchia abbracciate aspirò profondamente la familiare aria del bosco, sciogliendosi nel pianto accorato dei ricordi.
Tra le lacrime, riandò col pensiero a suo padre, spietato e temuto guardiacaccia della tenuta del barone Franco Maria von Krapfstein: altissimo, altezzoso e biondo chiaro come tutti i suoi antenati teutonici. Per farsi rispettare dai sempre più affamati bracconieri, oltre a un cappellaccio nero calato sugli occhi, suo padre esibiva un barbone e dei baffi a torciglione più neri della unta chioma arricciata sul colletto della divisa, ad incorniciare una grinta torva e minacciosa attraversata da una benda sull’occhio destro, accecato dai pallini sparatigli durante una battuta da un ospite di riguardo: che, in quanto tale, era ovviamente sprovvisto di licenza e di relativa assicurazione. Il barone mise a tacere la vicenda assumendo l’infortunato come guardiacaccia fisso, dandogli la casa degli ultimi mezzadri emigrati e poi in moglie la cameriera: una ragazzotta bruna pescata con quattro soldi dalla baronessa in un paesino della costa calabrese durante le vacanze al mare.
Anito conservava un fumoso ma rispettoso ricordo di suo padre, sempre in giro per sorvegliare la riserva; anche di notte, quando il fattore lo spediva, su ordine del barone, a prendere il numero di targa delle auto che sparavano alle lepri illuminate dai fari.
Rientrava a giorno fatto, buttandosi sul letto vestito a russare, alzandosi solo per mangiare, muto e accigliato, senza degnare il figlioletto di uno sguardo e, men che mai, di una carezza. Devoto di Garibaldi, perché suo zio aveva sposato la nipote di un garibaldino, quando sei mesi dopo le nozze gli nacque un maschietto anziché la bimba attesa dalla moglie, gli aggiustò solo la desinenza della famosa Anita: ma non i capelli, di un biondo teutonico.
Tino, diminutivo di Anitino, crebbe attaccato alla sottana della mamma che se lo coccolava teneramente, portandolo spesso nel lettone disertato dal consorte, salvo qualche occasionale sfratto in piena notte nella culla, accanto al camino della cucina. Anito conservava solo il vago ricordo di una mano morbida, liscia e profumata che l’accarezzava, prima di tornare nel lettone in braccio alla mamma che lo sbaciucchiava cantandogli una ninna nanna tradotta dal dialetto calabrese per rispetto dell’illustre ospite:
- Stella, stellina, la notte si avvicina
la mucca è col vitello, la pecora con l’agnello,
la chioccia col pulcino, la mamma col bambino,
il bambino con la mamma e tutti vanno a nanna.-
Più grandicello, convinto che il babbo non lo baciasse per non graffiarlo col barbone ispido, Tino infilava con emozione nella sua manona callosa il braccino per un giretto nel bosco intorno casa. Ma alla svelta, per non far stare in pensiero la mamma, gelosa non solo del marito, ma di chiunque. Compresi i primi compagni di scuola, che perciò diradarono le visite domenicali accompagnati dai genitori. Per le tranquille femminucce, gli dispiaceva più che per gli amichetti, per la loro frenesia di giocare solo alla lotta e alla guerra. Tino se ne restava in disparte senza staccare gli occhi di dosso dai compagni, perché la loro presenza gli regalava qualcosa che sembrava mancargli. Un qualcosa che non riuscì a trovare neanche dopo l’accresciuta frequentazione col babbo, quando avviò a prepararlo come futuro guardiacaccia: usando i soliti metodi autoritari e rispondendo con insofferente distacco alle sue profferte affettuose: - Guardate con chi mi devo confondere oggi! Stare con lui era un temuto tormento, perché non perdeva occasione per umiliarlo. Meno che in casa, dove comandava indiscutibilmente la mamma, gelosissima dell’unica compagnia della sua stentata esistenza, anche se avrebbe preferito una figlioletta.
Una sera di carnevale fece una scenata furibonda alla mamma che aveva mascherato Tino da fatina, truccandolo con cipria e rossetto. Alla fine lei spense i fornelli dichiarando lo sciopero della cena e se lo portò, impaurito e piangente, nel lettone, cantilenando:
- Carnidevaru è muortu (Carnevale è morto
E li maccaroni su cuotti e gli spaghetti sono cotti
E lu casu è da grottari e il formaggio è da grattare
Mari mia Carnidevaru!- Povero Carnevale!)
Nella permanente conflittualità con il marito, la Calabrese, come la chiamavano in paese, non perdeva occasione per guadagnarsi la complicità del figlioletto, ostentando la sua preferenza più per il ruolo di mamma che di moglie con comportamenti quanto meno insoliti, come ad esempio fare il bagno insieme a lui e, più tardi, offrirgli il ruolo di confidente dei suoi più intimi segreti di donna. Barone compreso. Morbosamente possessiva, lo coinvolgeva nelle attività domestiche come fare le faccende e cucinare, lodandolo in confronto a quel buono a nulla del babbo, sempre fuori di casa insieme ai suoi canacci. Iperprotettiva, non perdeva occasione per scoraggiarlo ad intraprendere un’attività pericolosa come la caccia, soprattutto al cinghiale o rischiosa, come giocare a pallone, solo per farsi male, sudare e ammalarsi. Sua madre decideva tutto per lui: da quali compagni frequentare ai film più adatti, fino ai giochi da scegliere, senza distinzione fra quelli da maschietti come i soldatini o da femminucce come le bambole.
Alcuni schiocchi sonori sotto il palco riscossero il postino che sollevò la botola e nel barlume del sottobosco intravide la sagoma di un cinghiale che spigolava i chicchi di granturco caduti dal palco. Quando una folata di brezza, scivolando lungo il tronco, calò giù il noto ma insolito odore del postino, ruotò il grifo all’intorno, sbattendo le orecchie. Era riuscito ad invecchiare non fidandosi di alcuna presenza umana, specie di notte, e con uno sbuffo si allontanò quietamente in punta di zoccoli.
Richiusa la botola, a tastoni Anito abbeverò Franco Maria, appisolato sulla racchetta e riprese il filo dei ricordi, peraltro già dipanato nei momenti di sconforto in circostanze analoghe. Anziché palco, avrebbe potuto chiamare quel suo rifugio spirituale “pensatoio” come lo studio dell’irraggiungibile barone, omonimo del suo colombo prediletto.
Andando avanti con la scuola dell’obbligo, qualcuno dei maschietti più smaliziati si accorse che Tino non solo era più attratto dai compagni che dalle compagne, ma ripudiava imbarazzato certe esibizioni tipiche degli adolescenti, come il confronto fra i birilli più lunghi, le palline più grosse e le erezioni capaci di reggere una cartella piena di libri.
Nella società contadina e paesana di una volta l’omosessualità era un tabù culturale e morale più insormontabile di oggi, una condizione pesantemente infamante perché contro natura, un vizio socialmente deviante soprattutto per i giovani. I primi deridenti sospetti e i volgari e spietati dileggi, accrebbero la confusione di Anitino in merito alla sua identità sessuale. Infatti, anziché provare rancore, era attratto dai coetanei suoi persecutori, che lo bersagliavano con i più variopinti termini dialettali. Finché durò l’obbligo scolastico, Anitino si sforzò di combattere l’assillante intolleranza dei compagni sforzandosi di assumere comportamenti sessuali ritenuti normali, o quanto meno accettabili dagli altri. Arrivò perfino ad allungare le mani su una ragazzina, ma con un piglio talmente serio e preoccupato da ricavarne una reazione contraria. Alla fine cercò di convincersi che i rapporti sessuali erano una cosa riservata ai grandi quando si sposavano e agli invidiati maggiorenni al casino. Verso questa agognata prospettiva, i più grandicelli erano soliti iniziare i compagni minori con qualche giochetto propedeutico alle future pratiche sessuali. Si trattava di una specie di omosessualità transitoria, dove il partner maschile di turno funzionava come un banco di prova su cui ognuno misurava la propria prestanza fisica e cercava di superare la paura verso l’altro sesso, Anche per compiacere i suoi persecutori, Anitino non faceva troppe storie a prestarsi nel ruolo passivo di banco di prova. Inoltre per la sua situazione psicologica di insicurezza e per il mancato contributo affettivo paterno, si sentiva attratto da questa anomala forma di soddisfacimento di soggetti del suo medesimo sesso.
Cercò di vivere la sua sofferta condizione in clandestinità, senza ostentazioni autolesionistiche, non solo evitando i rari soggetti arcinoti in paese e dintorni e come tali cronicamente discriminati, ma anche arrivando ad assumere nei loro confronti atteggiamenti dispregiativi e di aperta condanna, perché viveva nella paura di essere emarginato come quei poveretti. Aveva quindi cercato di non compiere atti sessuali bollati come da invertiti, ma di praticare la castità per evitare un quasi certo rifiuto sociale: nonché una più che certa schioppettata da suo padre, reso sempre più irascibile dal vino, dalla conseguente cirrosi, nonché dal soprannome di baronetto affibbiato ad Anitino.
Il postino tese l’orecchio. Poi si alzò, affacciandosi al finestrino. Mamma volpe abbaiava rauca per radunare i volpotti in caccia di odori nuovi e affascinanti.
Passa via, delinquente: vorresti insegnare ai figlioli a fregarmi i colombi?-
Da un pezzo si era accorto che quella volpaccia girovagava in ottobre nei pressi, nella speranza che qualche colombaccio ferito sfarfallasse tra i cespugli fuori dal raggio di tiro dell’inquilino del palco. Ma quell’infame, ricevuta dall’udito la conferma del sospetto annusato nel viottolo, continuò imperterrita ad intruppare l’indisciplinata figliolanza. Si sopportavano da anni, ma mai il postino gli avrebbe lasciato un colombaccio imbottito di stricnina o con una fialetta di cianuro come supposta. Per un po’ rimase affacciato a contemplare il cielo stellato, da giorni al bello stabile, come previsto dalle sue autodidatte conoscenze metereoloiche: le libellule in volo sopra le chiome delle piante, le rondini come puntini persi nell’infinito, l’intenso via vai dei gabbiani tra la discarica e il mare e, quella notte stessa, il dialogo tra una civetta e un assiolo, tra lo svolazzare dei pipistrelli.
Nel tentativo di liberarsi da quello che tutti condannavano come un vizio peggio del fumare, di sborniarsi e di perdere al gioco, Anito consultò un frate esorcista e con maggior fotuna una strega perché almeno gli fece uno sconto. Si documentò meglio su un libro prestatogli da un amico studente in medicina: ma le poche cose che riuscì a capire furono le spiegazioni sulla omosessualità tra donne e perfino tra animali. Meno male, mal comune, mezzo gaudio.
Ma allora, se non era nato sessualmente sbagliato, forse c’era diventato, così come si impara a rubare, ad ammazzare, a drogarsi? Rabbrividì al pensiero che ai delinquenti non viene giustamente concesso il porto d’armi. Oppure era un malato. Come certamente lo sarebbe diventato e di una malattia incurabile, se avesse cercato di consolarsi con una girandola di disgraziati come lui.
Era stato scartato al servizio militare per deficienza toracica e non, come malignò qualcuno, perché chi vuol servire il re deve saper servire anche la regina. Prima di morire per un malaccio incurabile sua madre gli consigliò di cercarsi un’occupazione più adatta alle sua intelligente sensibilità, anche riprendendo a studiare, tanto qualche santo avrebbe provveduto alle spese. Invece il santo in questione non si fece più vedere, neanche al funerale.
Dopo i tentativi infruttuosi di imparare un mestiere, le sue complesse ed emarginanti problematiche relazionali originate dal complesso di inferiorità verso una società a guida maschile e maschilista anche al femminile, lo convinsero a scegliere un’attività lavorativa solitaria ma potenzialmente ricca di comunicativa: quella di postino, che a quei tempi si chiamava anche procaccia. Qualifica piuttosto gratificante per uno che si sentiva in debito morale con la società, perché gli consentiva di procacciare gratuitamente mille favori a tutti: dal disbrigo di lungaggini in Comune a all’Unità Sanitaria Locale, al ritiro dei porto d’armi in Questura e dei certificati dai medici; dal portare a riparare un orologio o un elettrodomestico in città, al pagamento di rate, polizze e cambiali in esattoria.
Giorno per giorno, pratica dopo pratica, col lavoro di procaccia riuscì a ricostruirsi un’immagine dignitosa e accettabile, lasciando a rodersi nel dubbio le solite malelingue del paese. Si abbonò perfino a un paio di pornoriviste, che lasciava intravedere nel borsone mentre scartabellava la corrispondenza; in realtà a casa le sfogliava, ma solo per ammirare i parteners maschili. Al bar era una miniera di barzellette grasse e scollacciate, attinte sui periodici umoristici.
Il postino prese a lisciare il collo di Franco Maria con due dita, abbandonando il filone degli amari ricordi. Da anni Anito, proprio grazie a quei richiami, veniva considerato il colombaio più esperto della zona e qualcuno avrebbe dato chissà cosa per salire sul suo palco in un giorno di passo. Socchiuse gli occhi per veder arrivare il primo branco e le sue dita abbandonarono lentamente le piume di Franco Maria.
Il sommesso richiamo di un barbagianni in perlustrazione gli augurò la buonanotte. L’amica luna, tramontando, tagliò in fretta solo un angolo del finestrino spalancato, come un autentico satellite naturale, discreto e riservato e non come gli spioni della concorrenza artificiale.
Scendendo dalla scaletta del palco, racchetta in pugno, col sole già alto sostò su un piolo per rispondere al telefonino: era il direttore:
- Anitino, sei sveglio? Tu sì che sei un ragazzo sveglio! L’hai proprio azzeccata ieri, a mandarmi a caccia nelle Marche: ho fatto uno “stragio” Il portabagagli è zeppo di tortore. Vienine a prendere un mazzo, prima che soffrano il caldo. Corri, ti aspetto in ufficio -
Al brusco atterraggio sull’erba dopo un incredibile salto dalla scaletta, Franco Maria starnazzò indispettito per quel tentativo di volo miseramente fallito.
Al ritorno, con un grosso mazzo di tortore appeso al manubrio del motorino, il postino attraversò tutte le frazioni anziché le consuete scorciatoie, pavoneggiandosi felice perché il direttore aveva accompagnato il regalo esclamando:
Voglio tirare ad almeno dieci colombacci per ogni tortora. Patti chiari, amici cari. Sei d’accordo, Anito?
– Stai tranquillo. Appena vedo i primi , ti telefono.-
Abbracciandolo per salutarlo, gli chiese di chiamarlo Angiolino o, meglio Giangino. Questa inattesa dimostrazione d’affetto lo commosse: nessuno gli aveva mai dimostrato un’attenzione simile. Non se ne parli di suo padre!
Il postino raggiante ricambiava con larghi sorrisi i divertiti complimenti dei conoscenti incontrati (- Mi vogliono bene come a un fratello: è proprio brava gente!)
Mai il postino si era sentito così sicuro di sé, euforico e contento di vivere. Vedeva il suo piccolo mondo diversamente dal solito non perché fosse cambiato, ma perché era cambiato lui: stava riacquistando la stima in se stesso e la fiducia negli gli altri. Il consueto entusiasmo della vigilia del passo dei colombacci l’invase come mai gli era accaduto, scacciando i ricorrenti fantasmi di colpevolezza e si chiese emozionato se era guarito dal vizio e dalla malattia!
In verità qualcosa di nuovo gli stava accadendo: si era innamorato di Giangino.
Franco Nobile
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