Poco oltre la città di Aosta, allo sbocco della Valle di Cogne, sorge il Castello di Sarre: domina il panorama dall’alto di un poggio, tra fertili vigneti che digradano verso la pianura. Denis sta osservando la prospettiva degli archi che, alla base della struttura, descrivono un’elegante geometria. Nel 1869 il Re Vittorio Emanuele II di Savoia aveva acquistato questo maniero per farne la sua residenza estiva, durante i suoi soggiorni di caccia in Val d’Aosta. Il Re, non a caso passato alla storia con l’appellativo di Roi chasseur, amava soprattutto battere i sentieri sotto al Gran Paradiso. Denis varca l’ingresso e il Salone dei Trofei si apre maestoso alla sua vista. Non saprebbe dire il perché, ma il castello gli comunica un senso di calore familiare. Si sente come se ritornasse a casa. Come se una parte di sé sia appartenuta a quel luogo da sempre.
Ad un primo sguardo lo sfarzo delle decorazioni gli riempie lo sguardo in un’unica, armonica, visione unitaria. Poi, però, i dettagli delle forme prendono contorni più definiti e la sorpresa lo coglie: le innumerevoli linee scure che compongono i fregi sulle pareti non sono dipinte, ma spiccano in rilievo. Sono corna di stambecco. Curve e sinuose, toccandosi con le punte, disegnano artistiche composizioni, inserite dal pittore in ampi riquadri sfumati di rosso e oro. Le corna sono dappertutto: attorno alle finestre, alle colonne, sul soffitto. Sono in un numero impressionante. Completano il sorprendente assieme molti busti di stambecco, che, a qualche metro da terra, osservano con incredibile intensità quanto avviene nel salone. Gli occhi scuri e intelligenti degli animali sembrano possedere ancora una scintilla di vita. I loro sguardi catturarono quello di Denis, mentre una folata di vento apre, con un colpo secco, la finestra che dà sul varco centrale del Castello.
1834
Quel ragazzo detestava gli studi. Invano costosi precettori si alternavano alla reggia, nell’inutile tentativo di infondergli l’amore per la storia, le scienze e la filosofia. Accadeva ogni volta che il giovane principe si allontanasse dalla biblioteca con un pretesto qualsiasi. Da abile mentitore qual era già diventato, nonostante la giovane età, riusciva sempre a risultare convincente. Il malcapitato professore lo osservava allontanarsi con passo deciso, mentre il pesante tavolo di noce, ingombro di libri, veniva definitivamente abbandonato. Attento che nessuno lo seguisse, il giovane si dirigeva svelto verso l’armeria. Non riusciva a stare lontano da quella bellissima doppietta a percussione a due canne, sulla cui anima liscia spiccava in oro la scritta: Gio. Batta. Lecler Armajuolo di S.S.R.M., l’iscrizione della Fabbrica Reale di Torino. La radica era di noce scolpita, mentre altre parti erano in oro, argento, avorio e acciaio. Sotto il fusto della cassa vi era il monogramma sabaudo, mentre, su ciascuna canna, era presente il punzone della manifattura reale. I fornimenti erano d’argento massiccio, scolpiti con figure legate al mito di Diana, divinità della caccia: la dea ed il pastore Endimione comparivano sul guardamano e sul calciolo. Da quando aveva imparato a sparare, soltanto l’estate precedente, l’unica cosa che occupava per intero la sua mente era di migliorare nella mira fino a diventare un cacciatore eccellente.
1859
Il Re cavalcava tranquillo e sorridente. Il mattino si apriva limpido e sereno sulla valle e la battuta di caccia di quel giorno nasceva sotto i migliori auspici. L’origine della caccia al cervo si perdeva nella notte dei tempi: fin dall’antichità gli uomini avevano ucciso questi animali per la succulenta carne, da arrostire sugli spiedi o da accompagnare le pietanze durante i banchetti di festa. Ma anche le corna costituivano un pregiato trofeo. Vi era la tradizione secondo cui i cervi guidassero gli spiriti nell’oltretomba e questa leggenda attribuiva all’animale caratteristiche di sacralità. Per questi motivi la caccia al cervo era prerogativa della nobiltà ed era severamente proibito al popolo cacciare sui sentieri del Re, pena l’impiccagione. Del corteo reale facevano parte una lunga fila di bellissimi segugi, che avevano il compito di condurre l’inseguimento, durante il quale il cervo sarebbe stato sfiancato prima di venir ucciso.
La Valsavarenche era quella preferita da Vittorio Emanuele: più stretta, isolata e selvaggia rispetto alla vicina Val di Cogne, si allungava proprio sotto alle vette del Gran Paradiso. Era una valle ricchissima di cervi, stambecchi e camosci. Gli animali si aggiravano, in branchi numerosi, nei boschi intatti e il fascino di quella natura incontaminata esercitava sul sovrano un richiamo fortissimo. Aveva dato ordine che fossero battuti alcuni sentieri, affinché l’ascesa potesse rivelarsi più agevole e meno dispendiosa. Avevano lasciato il paese di Degioz e ora stavano salendo per un’impervia mulattiera. Quando apparvero alla sua vista i casolari di Orvieille lo sguardo del Re venne attratto da una figura china sul ruscello: una donna stava sciacquando dei panni e accanto a sé era posata una pesante gerla ben visibile da lontano. Il Re, che procedeva davanti a tutti, avvicinandosi, fu il primo ad incontrare gli occhi della donna, che, avvertendo il rumore degli zoccoli, aveva nel frattempo interrotto il suo lavoro. Aveva una folta massa di capelli scuri, di una profonda tonalità di castano, trattenuti in maniera casuale da un ruvido legaccio di cuoio. La veste, piuttosto logora e sbrindellata, si tendeva sulle robuste spalle abituate alla fatica. Un seno prosperoso tendeva il tessuto. Lo sguardo attento del Re notò che dalla scollatura mancavano dei bottoni. La donna si rialzò, sostenendosi con le mani le reni indolenzite. Aveva sentito dire che il Re era arrivato alcuni giorni prima, ma non avrebbe mai immaginato di vederlo da così breve distanza. Gli sorrise, per nulla intimidita dal fatto di essere al cospetto di Sua Altezza. Vittorio Emanuele rimase serio e non ricambiò il suo saluto. La donna era davvero molto bella. Deglutì. I miseri abiti e la condizione di povertà non intaccavano minimamente il suo potere seduttivo, anzi, lo mettevano in risalto: i morbidi fianchi descrivevano una procace femminilità e invitavano ad essere afferrati. La donna non aveva addosso nessun altro orpello e manifestava una sicurezza spontanea e innata. Dame e contesse, al suo confronto, apparivano come ridicoli spaventapasseri, pensò il Re, ornate com’erano di una tale grottesca profusione di sete, organza e gioielli che toccarle diventava impossibile. Quella popolana invece… Nonostante la scomoda posizione a cavallo il Re sentì un immediato impulso difficile da ignorare.
- Sua Altezza Reale mi onora del Suo passaggio! Sono fortunata a poter vedere da vicino il Corteo dei Savoia. Fin quassù non sale mai nessuno e le giornate scorrono via tra mille fatiche. Siete più giovane di come mi ero immaginata! -. La donna aveva parlato con una voce argentina e il sorriso le inondava il volto di una luce sbarazzina. - E voi siete oltremodo sfrontata, signora! -. Calcando con ironia su quell’appellativo il Re si era portato nel frattempo di fronte a lei, senza, tuttavia, fare alcun accenno a scendere dal suo splendido cavallo nero. Per un lungo momento si perse nei suoi grandi occhi azzurri. Priva dei riguardi che avrebbe avuto una vera dama, lo osservava in un modo così diretto da rimescolargli il sangue nelle vene.
- Abitate qui? -, le chiese con tono imperioso, indicando con la testa la misera contrada. Ottenne un vistoso cenno di assenso da parte della donna, che spiegò come vivesse lì da un anno circa, ovvero da quando si era maritata al bovaro Henry Ferriet. – Avete figli? – le domandò, notando nella cesta del bucato numerosi stracci usati come pannolini. La sconosciuta spiegò che no, non aveva ancora avuto figli, quei panni appartenevano alla cognata che, incinta all’ottavo mese del suo secondogenito, non riusciva più a recarsi al ruscello, dato l’avanzato stato di gravidanza. Mentre gli parlava il Re notò una particolare macchia color caffè che spuntava dalla scollatura, precisamente all’attaccatura del seno. La popolana, seguendo lo sguardo del Re, proruppe in una fragorosa risata e spiegò che quella macchia era ereditaria e che l’avevano tutti quelli della sua famiglia. Non era certo il segno di un morbo: era una donna sana e robusta, lei! - Devo lasciarvi, la mia battuta di caccia è appena all’inizio. Forse… tornerò –. Con un colpo di sperone il Re ripartì al galoppo, seguito dal corteo. I servitori, dietro di lui, si scambiarono occhiate eloquenti: quella popolana non era passata inosservata agli occhi esperti del monarca. C’era in giro una strana diceria secondo cui Vittorio Emanuele II non fosse affatto un Savoia, ma il figlio di un macellaio, che, a causa di un incendio, era stato scambiato nella culla dalla nutrice. Il fatto era accaduto a Firenze e, se le cose fossero andate proprio così, nelle vene del Re doveva scorrere sangue toscano. Si sarebbero spiegate così certe sue stranezze, a partire dall’aspetto, rubizzo e massiccio, così diverso da quello della famiglia, per finire al temperamento, più simile a quello di un verace popolano che a quello di un nobile di alto lignaggio.
La battuta di caccia era proseguita sotto il sole e la fase della ricerca era stata stranamente lunga, contrariamente alle aspettative. Sembrava che gli animali della zona quel giorno fossero stati occultati da un inspiegabile sortilegio. Invano i servitori battevano la parte alta della valle, scrutandone ogni angolo. Alla fine, però, la perseveranza venne premiata e un magnifico esemplare di cervo era apparso, allo scoperto, su uno spuntone di roccia. Era un maschio alto e robusto, probabilmente superava i due quintali di peso. Aveva spalle arrotondate e muscolose, la groppa dritta e poderosa. Il muso, sottile ed elegante, osservava il corteo da lontano e gli occhi, vivaci e con il tipico taglio ovale, esprimevano una grande intelligenza. Il Re aveva ordinato l’inizio della fase della corsa, in cui il nutrito branco di levrieri aveva inseguito il cervo fino a sfiancarlo del tutto. Alla fine, troppo debole per protrarre la fuga, l’animale aveva affrontato l’aggressione dei cani. A quel punto il branco era stato richiamato dal Re, che, smontato da cavallo, si era accinto ad uccidere l’animale, non prima di avergli concesso, secondo l’antica, nobile usanza, l’ ultimo pasto.
Era ormai sera e il Re, per tornare, aveva scelto stranamente l’itinerario più lungo. Quello che gli avrebbe permesso di passare dai casolari di Orvieille proprio a quell’ora. Mentre i servitori, affatto sorpresi, iniziavano ad accamparsi per la notte, il Re in persona andò a bussare all’uscio dove la donna gli aveva detto di abitare. Fu lei stessa ad aprire gli scuri della camera, al piano di sopra. Non si mostrò sorpresa o, se lo era, non lo diede a vedere. Si era già preparata per la notte e i capelli, liberi dal legaccio, scendevano in onde morbide lungo la schiena. – Mi avete detto che vostro marito non è in casa e io voglio fermarmi qui per la notte. Mi fornirete un giaciglio, affinché domattina io possa rientrare alla Reggia ritemprato dal sonno -. La donna fece un breve cenno con il capo e si staccò dalla finestra. Nel silenzio assoluto della montagna, rotto solo dallo scorrere del ruscello, si sentirono i suoi passi scendere lungo la scala di legno. Subito dopo apparve sulla soglia, vestita di una camicia da notte di cotone grezzo. Nella penombra il Re vide che sorrideva, con quel sorriso luminoso e allegro che lo aveva conquistato fin dal primo istante. Lui entrò e la porta cigolante venne richiusa alle loro spalle. Dopo qualche istante si udirono di nuovo dei passi sulla scala, stavolta il passo pesante del Re seguiva, da vicino, quello più leggero della padrona di casa che saliva in camera. Lo scricchiolare delle molle, alcuni minuti più tardi, rese evidente che il Re era stato accolto nel letto con tutti i dovuti onori. Una lunga serie di gemiti si perse, poi, tra le ombre silenziose della notte.
2016
Denis esce dal castello di Sarre con una strana ed euforica leggerezza. L’indomani lo attende una battuta di caccia, chiamata di selezione. Questo tipo di caccia fa sì che una determinata quantità di animali venga mantenuta in un’adeguata proporzione rispetto al territorio, in modo che la specie resti in equilibrio numerico. Dopo che, a partire dagli anni Settanta, i cervi avevano subito il rischio dell’estinzione, ora in ampie aree la ricolonizzazione era pienamente avvenuta e si poteva cacciare nuovamente, entro i limiti stabiliti dalla Regione. Prima di sera deve controllare il suo fucile e finire di preparare tutto il resto dell’attrezzatura. La stagione è davvero calda e lui ha lasciato la sua golf nera al sole. Prima di salire si leva la maglietta. Sul suo robusto torace spicca una macchia color caffè.
Annalisa Santi
Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI
Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi”
A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze
[email protected] www.federcacciatoscana.it