Quella mattina, incastonata nei giorni festosi profumati di Pasqua, è ormai molto lontana, ma è fissata in un calendarietto che un cassetto della scrivania ha conservato in solitudine. Era il diario di un.. tempo giovane e spensierato nel quale annotavo gli effimeri avvenimenti della giornata. Quella mattina di marzo aprii la finestra e subito il sole, ancora debole e reso pallido dalla nebbiolina, illuminava con i suoi raggi obliqui un paesaggio che si stava ricoprendo di tenero verde.
Il ciliegio, nell’orto, aveva mutato il bianco della neve in fiori. Piccole ombre veloci si infilavano nella siepe di biancospino ai margini dell’orto con lieve pigolio. Era tempo di nidi.
Quale forza segreta e potente aveva vinto l’austerità dell’inverno? La natura, si era risvegliata in un’estasi silenziosa e noi dobbiamo ringraziare l’ordine divino che ha permesso il miracolo,che da millenni e millenni si ripete, per la felicità del creato.
Fu allora che un cuculo,nella pienezza della luce del mattino,fece udire il suo canto,un po’ vieino, un po’ lontano. Un soffocato richiamo, ripetuto senza riprendere fiato.
L’uccello poco si mostra, ma la sua voce sonora è quella che apre le porte alla nuova più viva luce della dolce stagione.
Per il buon profitto scolastico mi era stato regalato un fucile monocanna calibro 28, nonostante non avessi ancora l’età per usarlo. Il babbo, fu prodigo di consigli, e mi ripeteva con gravità: ”Non puntarlo mai sulle persone, anche scarico, perche sono i fucili ritenuti scarichi che provocano tragedie, la canna sempre rivolta in alto o in basso, mai caricano in casa e togli le cartucce prima del rientro.” Io promettevo di essere prudente e non vedevo l’ora di correre nel bosco in cerca di pettirossi, aliuzze, bucasiepi, merli, ghiandaie.
Sul calandarietto segnavo le catture e sotto la data. Trovo: 20 marzo un merlo, un fringuello maschio con le ali colorate; 21 - 22 marzo vento e pioggia, 23 marzo e già primavera un cuculo. L’avevo sentito cantare, mi ero vestito in fretta ed ero corso nel bosco incantato da quell’invito. Cessavano al mio passaggio i canti e la ghiandaia emetteva il suo grido d’allarme rendendo inutili i miei tentativi di avvicinarla. In fondo al sentiero che divideva in due la boscaglia, sorgeva una graziosa cappelletta in mattoni chiari, nella nicchia, protetta da una grata di ferro, c’era una Madonnina venerata in modo particolare dalle donne del paese, meta per il rosario nelle tiepide sere di maggio.
All’improvviso un grosso uccello, con volo erratico, si posò su un vecchio faggio ancora spoglio, proprio dietro all’edicola che mi nascondeva alla sua vista. Batteva ancora le ali per ritrovare l’equilibrio sul ramo e io avevo già levato il fucile e lasciato partire il colpo. L’uccello cadde. Andai a raccoglierlo. Mi pareva un falco pellegrino, stesse ali appuntite, coda lunga, livrea marrone – bianco chiazzata, ma il becco non era adunco da sparviero, non aveva artigli ma unghie. Fiero della mia preda rientrai subito a casa per mostrare lo strano uccello a mio padre che, invece di’ rallegrarsi, mi disse con tono di rimprovero: “E’ un cuculo che tu hai ucciso”. Mi sentii avvampare e andai, a testa bassa, a riporre il fucile, amareggiato.
Il giorno dopo c’erano ancora i segnali della primavera, ma nel coro degli uccelli mancava il canto pieno di lontananza del cuculo. Mi sentivo colpevole come se, uccidendo quel messaggero innocente nei giorni stessi che portava l’annuncio liberatorio della bella stagione, avessi distrutto un po’ dell’allegria della natura.
Se avessi saputo allora qual è il comportamento del cuculo in natura l’alone poetico costruitogli intorno da poeti e innografi sarebbe caduto come le foglie secche in autunno e io non mi sarei pentito di quel colpo di fucile.
Il cuculo è un solerte assassino. Dopo il canto primaverile né il maschio,né la femmina di cuculo fanno coppia come gli altri volatili, ma preferiscono un turbine di incontri amorosi poi ciascuno va per i fatti suoi. Fatto eccezionale nel mondo dell’avifauna, la femmina non mostra alcun amore materno per i figli, ma esattamente come fanno alcune donne perdute che depongono i figli sui banchi delle chiese o, peggio, li lasciano sulla strada alla pietà dei passanti, la femmina del cuculo, dopo aver deposto l’uovo fecondato sul terreno, allarga il becco a dismisura e lo ingoia. Poi vaga per i boschi in cerca di un nido di pettirosso, capinera, passera dove la femmina abbia già deposto le uova e, in sua assenza piazza il suo in mezzo agli altri. E s’invola senza curarsene più.
Gli uccelli non sanno contare e l’uovo ospite non ò riconosciuto come un intruso e viene amorevolmente covato. Si schiuderà prima degli altri. Ne uscirà un piccolo mostro con il dorso incurvato, un terribile uccelletto che, ingrossandosi più degli altri mentre reclama sempre cibo che i genitori adottivi si affannano a procurargli, occuperà tutto il fondo del nido. Gli altri neonati gli scivoleranno sul dorso e verranno con bruschi movimenti espulsi dal nido. Cadranno ai piedi dell’albero o del cespuglio preda di arvicole, cornacchie e formiche.
Questo curioso artificio della natura assicura la sopravvivenza di una specie, quella dei cuculi, il cui misterioso e affascinante canto primaverile, prelude ad una strage di innocenti.
Giuliano Patella
Concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore"