Situato all’interno della piana, fra il tino di moscona che lo sovrasta da lontano e la strada che da Grosseto conduce ad Istia d’Ombrone. Non un vero e proprio padule ma una depressione nel terreno che prendeva origine dal fosso della molla e che, dopo le piogge che allora erano abbondanti, diventava una vera zona da spadulamento, ove trovavano rifugio e pastura barazzoli, germani beccaccini, in pieno inverno, nella primavera, luogo di sosta per limicoli e trampolieri.
Inoltre luogo di pascolo per le bestie maremmane con i loro vitelli e per i neri tori sempre in allerta ed estremamente irascibili.
I campi vicini, allora coltivati a grano biada ed erba medica, erano il regno incontrastato delle allodole che da ottobre ne riempivano le stoppie rimaste e i bruni seminati.
Il “Podere” situato fra le Stiacciole e la località San Martino è stato per me scuola di conoscenza della nostra fauna maremmana e poi scuola di caccia grazie allo zio Menotti che ha fatto per me le veci del babbo, mancato prematuramente, quando avevo solo dieci anni di età.
Nelle serate accanto al fuoco del camino, sul tavolo rustico in legno levigato dall’uso e dal tempo della grande cucina del podere di San Martino, tutti i maschi di casa, grandi e piccoli, partecipavano, con mansioni diverse, al caricamento manuale delle cartucce da caccia.
Il caricamento delle cartucce da caccia era una forma di notevole risparmio, rispetto all’acquisto di caricamenti già pronti nelle armerie della città.
Poi le cartucce ricaricate avevano un fascino diverso e più coinvolgente nel senso che se davano buoni risultati era merito appunto di chi le aveva caricate.
L’esperienza di allora era appunto una grande conoscenza delle polveri da sparo ed un grande rispetto per la loro pericolosità.
Anche se piccoli, venivamo responsabilizzati dai grandi, e nessuno di noi si è mai sognato, nella vita, di azzardare un uso improprio dei propellenti stessi.
Tutto ciò aveva un fascino particolare, tutti gli arnesi necessari alla ricarica, fatti a mano da sapienti artigiani, hanno ancora oggi un posto d’onore nel cassetto delle cose della caccia, i colorati contenitori dell’Acpania, della Sipe, della DN della Sidna, i contenitori dei fulminanti nuovi, i ricalibratori in alluminio con il martelletto di legno, le bilancine, con l’alzo, la bacchetta di sostegno, i piattini ed i pesi servivano alla misurazione di precisione della polvere da sparo e dei piombi nelle dovute proporzioni delle varie ricariche.
Allora le cartucce si chiamavano normali, mezze corrazzate e corrazzate in base alla carica di piombo.
I primi borraggi erano di sughero macinato, i cartoncini dei vari calibri, i calcatoi esclusivamente fatti in legno tornito con la varie tacche servivano a dare l’opportuna pressione sulla polvere da sparo, l’altro cartoncino e poi l’orlatore per la chiusura della munizione finita, tutte queste mansioni noi svolgevamo nella piena consapevolezza di compiere una operazione di responsabilità ed efficienza.
Provate oggi, solo a parlare con un bambino di queste cose e verrete sicuramente denigrati come i peggiori guerrafondai di questo mondo.
Noi ragazzi eravamo già avvezzi all’uso di piccoli archi in stecche di ombrello, che opportunamente armati di frecce sempre in acciaio appuntito, ci servivano per cacciare lucertole o bersagli posticci.
Le poche lucertole che si catturavano servivano poi come nutrimento, in aggiunta ai topi di nido, alle cavallette ed ai grilli dei campi, per i nidiacei delle civette o degli assioli che precedentemente catturati nei nidi delle sughere,venivano poi addestrati al volo guidato su una lunga canna con un posatoio in sughero arrotondato, ed usati come irresistibile richiamo nella caccia alle allodole.
Proprio quel servizio del “ civettaio “ era riservato a noi più piccoli mentre i più grandi sparavano con le loro doppiette alle allodole.
Le maestose sughere dei campi limitrofi al “ lago Bernardo” per quei tempi e per noi ragazzi, erano un vero mondo da scoprire.
Appunto un vero mondo da scoprire, le loro ghiande, raccolte a tempo debito, fornivano un incremento prezioso all’allevamento dei maiali di casa che ingrassavano nel castro e che poi ci avrebbero donato le loro carni dal sapore indimenticabile nell’inverno dell’anno successivo.
I nidi delle civette nei loro anfratti nascosti, gli assioli che usano ancora oggi la pace e la sicurezza offerta dalla fitta chioma per allevare i loro piccoli, ci fornivano allora quei richiami indispensabili alla caccia delle allodole.
Le civette od i gufetti come noi li chiamavamo, stavano nelle apposite gabbie non usate per l’allevamento dei conigli, poi venivano, ormai adulti, a caccia inoltrata, liberati in natura, ricordo che alcuni di loro prima di abbandonare definitivamente le gabbie continuavano a stare sulle piante vicine ancora per qualche giorno.
La cattura dei civettini e degli assioli comportava una avventurosa scalata delle Sughere, contrastata in tutti i modi dalle feroci cudere che infliggevano innumerevoli e dolorose punture alle nostre gambe nude, ma l’avventura della scalata e della scoperta valevano certo quella piccola e fastidiosa sofferenza.
L’odore del sughero mi accompagna ancora se appena chiudo gli occhi e ricordo quei tempi spensierati.
Ci è sempre stato insegnato il rispetto di tutte le creature che ci circondavano, ognuna di loro aveva il nostro rispetto, guai a infliggere loro qualche sofferenza o cattiveria gratuita, bastava uno sguardo severo dello zio Menotti per ricondurci sulla retta via.
Abbiamo allevato nidiacei caduti dai loro nidi, volpacchiotti e piccoli ricci, gazze ladre, che comunque una volta adulti, guadagnavano sempre la loro libertà.
Quanto dispiacere per qualcuno di loro che magari si ingariva e moriva nonostante le nostre più prodighe cure.
L’amore per gli animali ce li ha fatti sempre rispettare e proteggere nonostante la nostra passione atavica per la caccia.
Comunque una caccia svolta sempre nel rispetto delle regole anche quando le stesse erano solo tramandate e non scritte.
Mai stragi fini a se stesse ma limitate sempre dal buon senso e dalle effettive, allora, necessità di nutrimento.
La carne si mangiava una volta o due alla settimana, per lo più maiale o polli allevati appunto dalla zia Laura, quindi la selvaggina era comunque ben accetta.
Poi, quando eravamo ormai più grandicelli, lo zio Menotti ci permetteva, nell’aia del podere di sparare con il calibro 20 a cani esterni qualche tiro propedeutico ai passeri che venivano al tetto.
Anche i passeri, notoriamente coriacei, finivano arrostiti e mangiati con grande soddisfazione.
Un altro compito di noi ragazzi era quello di sparare alle faraone che andavano a dormire sulla quercia dell’aia, in quanto era impossibile catturarle in altro modo, per questa faccenda veniva usata la calibro 22 beretta del nostro cugino Bruno.
Occorreva colpire la faraona di turno in testa, primo per non sciuparne le carni poi per evitare che il proiettile facendo la passata permettesse alla faraona di volare e morire lontano.
Avevamo anche una carabina ad aria compressa che ci aiutava molto alla cattura dei passeri che dormivano nei rogaioni del Lago Bernardo, si faceva una specie di tana alla base dei rogaioni stessi in modo da poter entrare sotto e poi sparare ai passeri ignari dell’insidia.
Finalmente all’età di sedici anni, con il permesso dei rispettivi genitori, potemmo con le leggi di allora, prendere il porto d’armi.
Era come aver toccato il cielo con un dito, finalmente potevamo andare a caccia da soli, la prima apertura di caccia la facemmo nella zona di Poggio alla Mozza al Podere la Cava delle Lastre sopra il Maiano.
La strada per raggiungere la cava delle Lastre era completamente imbrecciata e i nostri mezzi di locomozione erano due vecchie biciclette.
Affrontammo allora, di notte, questo avventuroso viaggio, scendemmo su tutte le salite nelle quali visto il breccino e la pendenza non potevamo assolutamente pedalare, mi ricordo che occorsero più di due ore per giungere alla nostra zona di caccia.
Per la strada ci attraversarono, era ormai l’alba, almeno tre lepri alle quali non potemmo sparare e che comunque ci fecero battere il cuore all’impazzata per la sorpresa e l’emozione.
Allora non avevamo cani da caccia con noi ma solo i nostri fucili e la grande voglia di avventura, le prede quindi furono forse due tortore africane e qualche beccafico.
Ci rimase comunque impresso il volo di una brigata di starne che si allontanò fuori tiro.
Comunque le prime prede degne di tal nome furono appunto catturate nei pressi o nel Lago Bernardo che ci regalava, un germano, un barazzolo qualche pavoncella all’aspetto serale, anche qualche lepre.
Ricordi che si affollano alla mente, le allodole catturate con le cartucce comperate dallo zio Ezio, che inoltre veniva a civettare e a tirare lo specchietto per noi che sparavamo.
Ora il Lago Bernardo mostra solo una distesa piatta di campi coltivati con essenze che mischiate allo stallatico produrranno biogas, mostra inoltre una grande cupola ed un grande impianto appunto a biogas che darà l’ultimo colpo ad una natura ormai già prostrata alle leggi della modernità e dell’illusorio risparmio energetico.
A guardare tutto ciò sono rimaste ormai forse solo tre sughere secolari che elevano ancora le loro chiome scure e sempreverdi contro il cielo di maremma e che sembrano incuranti degli stravolgimenti di cui è capace la specie umana.
Così come è scomparso il vero padule della Diaccia Botrona, ormai ridotto ad una distesa di acque salinizzate e di conseguenza diventato rifugio dei fenicotteri, anche il Lago Bernardo rimarrà solo un nome nei ricordi e nei rimpianti di chi lo ha veramente conosciuto come parte integrante e meravigliosa di una maremma che non c’è più.
Franco Veri
Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it