Era lì che guardava incredulo, dal sommo della collina tra il bosco di sughere e le macchie scure del lentischio, non sembravano passati tanti anni ma solo un attimo e con la mente ritornava al passato. Quella mattina Barore si era alzato presto, come sempre, la pioggia era cessata da alcuni giorni e la terra era grassa e pronta per essere arata, ma in quel momento lo sguardo si era perso nel fondo della valle, ad inseguire un merlo che chioccolando rientrava nel fitto di un costone boscoso. Si voltò e lanciò un’ occhiata verso l’amico, anch’egli con il fucile imbracciato che, in silenzio, ammirava quello spettacolo e seguiva i cani con lo sguardo.
Gli anni di colpo balzarono indietro e si ritrovò con le scarpacce vecchie e gli abiti logori a vent’anni, quando credeva di poter essere immortale e di avere il mondo tra le mani. Quello stesso mondo, che lo aveva scacciato dalla sua terra con forza e lo sbatteva tra i palazzi di una metropoli a respirare lo smog e guardare intontito i passanti che , increduli, a loro volta lo sfioravano nel loro moto perpetuo e sgomitando sghignazzavano dicendosi l’un l’altro :”L’è un terù”, sicuri del fatto che il giovanotto fosse piovuto lì da un momento all’altro da chissà quale remoto sobborgo di campagna .
La terra ce l’aveva nelle scarpe ma, se vogliamo, anche nel cervello , perché per lui la terra era linfa vitale e speranza per il futuro , anche se quella terra lo aveva cacciato via. Una stagione infame: i raccolti rovinati , i creditori che bussano alla porta ed il fallimento di una vita di sacrifici. Poi una nuova speranza , il viaggio in nave , sballottato dalle onde, poi quello in treno, accasciato sui duri sedili di legno , come un cencio. Alla stazione, la ressa, gli scambi di convenevoli degli altri passeggeri che scendevano, lo sguardo perso tra la folla e l’impressione per tutto ciò che sembrava grande, sconosciuto, terrificante.
Poi lo sguardo amico di colui che aveva avuto il coraggio di intraprendere il viaggio un paio di anni prima. Lo scambio di saluti, i complimenti per la forma fisica, i vestiti eleganti e lo stato di salute, ma dietro, il vuoto della solitudine interiore, il rimpianto per quella terra maledetta che anni prima aveva tradito anche l’amico, pure lui innamorato della sua campagna. Il lavoro in azienda paga bene, anche se la vita è monotona e le luci degli uffici sostituiscono quella del sole facendoti piombare in una sorta di catalessi vigile . Giorni , settimane, anni, sempre con gli stessi ritmi e sempre con gli stessi gesti Barore srotolava il nastro della sua vita senza curarsi più di ciò che gli piaceva e di quello che non gli andava proprio. Per chi è nato in città è semplice ma chi ha assaporato l’aglio selvatico , le more o il pirastru ( le pere selvatiche) maturo, è tutto un altro mondo.
Dopo alcuni anni aveva raggiunto una buona posizione sociale e, in ditta, godeva del rispetto dei colleghi e della stima dei superiori, ma questo non serviva a rendergli la vita più facile. Chi nasce sulla terra è lì che vuole tornare. Per chi è nato in campagna, anche i gesti più piccoli hanno un forte significato. La sera, al rientro, Barore guardava il cielo e scrutava le stelle. Le nuvole o il cielo nitido gli avrebbero predetto come sarebbe stato l’indomani.
D’autunno poi, i primi zirli facevano capire, quanto le foglie gialle, che la natura si preparava ad accogliere nuovi ospiti con la valigia sotto l’ala. Un contadino appassionato di caccia sa bene che in ottobre, oltre a ispezionare il mosto, conservare i fichi secchi, controllare le provviste dei meloni ed accatastare la legna e le vecchie balle di fieno, inservibili per gli animali , ma ancora utili per il camino, vi è un ondata di nuovi arrivi che preannuncia una stagione venatoria felice. Girando per i mais tagliati, dopo le prime piogge, trovava gli scavi dei conigli e negli spiazzi le grattatine delle lepri. Allora scendeva verso i canaletti e da lì partivano come saette i beccaccini e, dalle pozze, si alzavano pigri i germani o fulminee e silenziose le alzavole. Nei canneti echeggiavano i richiami garruli delle gallinelle o il trombettio delle folaghe. Ad un tratto, il silenzio era rotto dallo strillo acuto e chiassoso dei porciglioni, i piccoli rallidi il cui nome è quanto mai azzeccato perché il loro grido assomiglia a quello di un porcellino.
Risalendo dai rigagnoli e dalle pozze, sul sommo, guardava lontano, verso il bosco scuro e le querce e pensava che di lì a poco le beccacce avrebbero trovato degna ospitalità e stabilito la loro invernale dimora. Tutto questo d’improvviso era divenuto lontano. Ora il tempo era occupato solo dal lavoro, dalle vendite, dai contatti con i clienti e dai nuovi contratti stipulati.
La sera rientrava a casa, al decimo piano di un palazzo, in un appartamento di sessanta metri quadrati, quanto gli era più che sufficiente per vivere. Poi la tv, una cena frugale ed a letto. I ritmi della metropoli non ammettono il riposo. Tante volte il sonno tardava ad arrivare per cui, con il viso rivolto al soffitto pensava alla sua terra , ai suoi campi, ai merli chioccolanti ed ai conigli “argentati” dalla luce del sole. Pensava alla volta che sparando ad una beccaccia aveva fatto scappare un verro da un macchione ed una “compagnia” in battuta poco più distante lo aveva abbattuto ed aveva invitato Lui, il salvatore di una giornata persa , a pranzo. Quel vecchio ed inafferrabile verro aveva “saltato” le poste ed era sfuggito alla cattura.
La battuta in zona era stata organizzata, come spesso capita, per fare un favore ad un pastore del luogo, in quanto il vecchio solengo aveva preso l’abitudine di cibarsi degli agnelli neonati e, più di una volta, aveva aggredito la pecora partoriente uccidendola per nutrirsi della placenta e delle interiora. I branchi di cinghiali, come ben sapeva Barore, stanno spesso nei pressi degli ovili, anche perché molti pastori, oltre alle pecore, allevano alcuni maiali per la provvista domestica della carne. Normalmente gli assalti alle pecore non sono frequentissimi, ma quando alcune bestie prendono l’abitudine di cibarsi degli ovini, possono provocare danni ingenti. In una sorta di mutuo soccorso, i componenti delle compagnie di Caccia grossa “aiutano” il pastore a catturare la bestia pericolosa e lui organizza un pranzo in loro onore. Ma lì era tutto diverso.
Tra quelle quattro mura quei ricordi correvano sbiaditi, come nuvole dense di fumo, anche se la loro presenza era attuale. Tante volte, l’unica consolazione la sera tardi era quella di far volare il pensiero oltre le mura e proiettarsi nei ricordi. Qualche volta l’amico e compagno di caccia arrivava a cena ed allora i ricordi aumentavano e le lunghe chiacchierate li portavano lì, sul limitare del bosco o al bordo dei canali, ad inseguire le saette alate, oppure lungo i filari di rovo ad ascoltare in silenzio la canizza sempre più forte che faceva presagire, da un momento all’altro, lo schizzo di un coniglio. Ed entrambi ripensavano ai cani e ripercorrevano le singole storie. Il ricordo di quel cucciolo bastardo, le sue prime esperienze con i cani già addestrati, la volta che il coniglio gli si era sbattuto sul muso, la prima preda e così via. L’arrivo del nuovo Bracco o del piccolo Setter. Le speranze per la riuscita del nuovo acquisto, il primo riporto di uno straccio con applicate un paio di vecchie ali di beccaccia.
La prima ferma, lo scovo delle pernici, le arrampicate sulle rocce e tra le spine, con il caldo e il solleone per cercare di ribattere la “volata”. Tutto questo non c’era più ed i ricordi scavavano dentro l’anima e lasciavano i due amici con l’amaro in bocca. Quando uscivano per cenare fuori, ciascuno rientrava a testa bassa. Allargavano il nodo della cravatta, ufficialmente per rilassarsi e mangiare meglio, in realtà, per fermare quel maledetto groppo in gola che li attanagliava ogni giorno, ogni istante di più.
La solitudine sistematica e la tristezza interiore non possono essere compensate dagli abiti eleganti e da una vita agiata, per cui un giorno Barore prese la decisone, radunò le sue cose , fece alcuni acquisti e riprese la via di casa, ma prima passò dall’amico per avvisarlo e quello, più pazzo e squilibrato di lui e con il cervello pieno di grassa e concimata terra, lo seguì. Lasciare una vita sicura per un avvenire incerto è una follia e solo un folle o una persona pazzamente innamorata delle proprie radici può farlo.
La terra è, a volte prodiga ed altre avara e senza pietà. Un’annata malevola può rovinare anche il più ricco proprietario terriero . Il tempo non segue le indicazioni dell’uomo, perciò i contadini maledicono la pioggia perché rovina il loro raccolto e maledicono l’arsura perché rovina la crescita delle nuove piante. E poi i contadini maledicono la grandine, il gelo, la neve, la brina ed ogni cosa che la natura elargisce, senza curasi, Ella, dell’umano consorzio. Il tempo fa da se e le stagioni si susseguono mentre il calendario srotola il nastro dei giorni, infischiandosene di ciò che dicono gli esperti meteorologi, anzi, spesso la natura fa le bizze e si impunta come un mulo dispettoso, insensibile ai “sacramenti” inviati al suo indirizzo e consapevole che l’uomo, per sua indole, è lestro a stancarsi. Tant’ è oramai la scelta era fatta ed il rientro già programmato. Ognuno è artefice del suo destino, anche chi sceglie di scambiare il certo per l’imponderabile. Arrivati al paese, dopo un viaggio massacrante e senza illusioni per la vita che li aspettava, andarono ciascuno a casa sua, con la promessa di ritrovarsi l’indomani, per fare un giro in campagna. Il primo giorno era di riposo assoluto e per inaugurare una nuova stagione della vita si era deciso, di comune accordo, di iniziare con una battuta di caccia, visto che il momento era propizio e visto che alla metà di novembre, quell’anno, la terra emanava un profumo speciale che sembrava promettere mille gioie. Negli anni precedenti Barore non aveva perso i contatti ed un caro amico gli teneva i cani. Certo, dopo tanto tempo i suoi cani non c’erano più, ma la fortuna aveva voluto che il suo amico, appassionato quanto lui, avesse serbato con cura le linee di sangue dei cani puri ed accoppiato meticolosamente anche i meticci, per cui gli fu facile avere in prestito due validi ausiliari adulti , al massimo della forma e, grazie all’amico, anche all’apice del loro rendimento. Il merlo che aveva visto poco prima era entrato in un bosco fitto e lui, d’istinto, si era guardato le scarpe, per accertarsi che il tempo non era trascorso affatto. Gli scarponi nuovi, costruiti in “continente”, lo riportavano alla realtà. Aveva il doppio degli anni ma il bosco, la terra , il cielo erano sempre uguali. Gli occhi avevano fissato nella mente quelle immagini ed ora le riportavano, pari - pari, quasi si fossero allontanati solo per un attimo. Il fanciullo che comanda i nostri sentimenti più innocenti lo fece chinare e prendere una manciata di terra umida, sollevare la mano e guardarla da vicino, annusarla e gioire di quel profumo e pensare all’aratura, quando il babbo passava il vomere per rompere quelle zolle così morbide per la pioggia ed alla fragranza della terra arata ed al profumo dell’aratro mentre rivoltava tutto ed agli uccelli che seguivano quei movimenti e quelle cadenze. Poi guardando più in basso scorse l’amico che , fermo come un sasso, contemplava la valle e si chinava a cogliere la terra, quasi avesse lo stesso impertinente fanciullo nell’animo. “Cosa fai? Nostalgia? Adesso siamo qui! Cerca di darti una mossa e fai entrare i cani nel fitto. Anni fa , in questo periodo, era uno dei primi posti dove trovavamo le beccacce. Ti ricordi?” Sì , sì , caro Barore, si ricorda, ma adesso dovevi stare zitto, perché i cani sono in ferma e davanti a loro una beccaccia si è alzata maestosa, non ha retto, così come il tuo amico non ha retto per la felicità e prende la mira, spara e fallisce, una, due volte a la regina curva e ripiega verso il bosco e tu spari , la sbagli e gli gridi. “Ma sei un pollo, ti hai “padellato” una beccaccia grande come una casa”. Ti fermi, fissi lo sguardo e ti rendi conto che il tuo amico piange per l’emozione e per la gioia di rivivere nei luoghi dov’è nato e le lacrime, si sa, fanno spesso fallire il tiro. E lui si volta, ti guarda . “E tu allora”?, Non hai nemmeno la scusa dell’ effetto–sorpresa , dal momento che io avevo già sparato e tuavevi campo libero” . Poi ti guarda, ride, tu ti asciughi gli occhi . “Siamo a casa”. “La prossima non la sbaglio nemmeno a fucile scarico”. E si ricomincia da dove ci si era 5
fermati, venti anni prima, con il profumo dell’aratro che sale piano e le stagioni che si alternano in quell’eterno affannarsi e rincorrersi , con il fanciullo che scalcia dentro di noi , con il corpo che invecchia e con la mente che ci riporta i nostri ricordi.
Luca Davide Enna