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Racconti

La mia avventura


venerdì 25 gennaio 2019
    

Ormai non mi andava più di raccontare quella che era stata la mia avventura.


Troppe volte ci avevo provato, senza averne alcun beneficio.


Nessuno dei miei ascoltatori mi aveva gratificato di quella condivisione che mi aspettavo e che, in qualche misura, ritenevo che mi dovesse spettare.


A parte quelli che chiaramente dimostravano di non capire nulla, anche quelli che umanamente sentivo ben disposti alla condivisione, alla fine non coglievano il nocciolo della questione e mi lasciavano completamente insoddisfatto.
Allora… meglio non raccontare nulla.


Anche di fronte alle richieste più insistenti e garbate, mi limitavo ad un sorriso un po’ triste e beffardo nello stesso tempo, che spiazzava e incredibilmente appagava i miei interlocutori, molto di più di tutti i miei precedenti vani tentativi di racconto.


La storia potrebbe finire qui.


Ma voi non sapreste mai se il difetto stava nella storia o nel mio modo di raccontarla.


Allora proverò, proprio per l’ultima volta, a raccontarvi questa benedetta storia.
Come tante volte avevo già fatto, anche quella fresca mattina di novembre, mi ero infilato con il mio cane in quell’intricato e scosceso calanco, percorso da un piccolo e limpido ruscello, alla ricerca della “regina”.


Il cane era Dik, giovane e inesperto setter bianco e arancio di un anno e mezzo, alla sua prima vera annata di caccia.


Nell’estate, infatti, era morta la mia vecchia cagnetta: la Lea, un setter tricolore.
Ancora avevo nitida l’immagine di quell’abbacinante giorno di ferragosto, quando avevo scavato la profonda buca per seppellirla.


Grondavo di sudore, che si confondeva con qualche lacrima. I colpi di piccone rimbombavano nel terreno, esaltando le cicale che si producevano in un frastuono sempre più assordante. Chi non ha mai provato a scavare in pieno agosto una buca di almeno un metro cubo di terra, non può capire. Io, invece, capivo che ero allo stremo delle mie forze. Più di una volta sono stato tentato di lasciarmi cadere in quella grande buca, per riposare finalmente, come se fosse la mia.


Alla fine, nella buca ho riposto la mia cara Lea, e di lei l’ultima immagine che ricordo, prima di ricoprirla della nera terra, è un ciuffetto di pelo scomposto sulla piccola testa, che le dava un aspetto sbarazzino e giovanile.


Del resto non aveva mai dimostrato i suoi anni, e ancora qualche giorno prima che fosse colpita dal male vigliacco, nessuno le avrebbe mai dato i tredici anni che aveva.

Tredici anni di estenuanti ed esaltanti cacciate dalla mattina alla sera, sempre alla ricerca della bellissima e perfida “regina”, che tante volte ci aveva lasciati a bocca aperta a rimirala, mentre, con sinuosa eleganza, si perdeva tra la vegetazione.


Tante altre volte, però, reclinata di lato la testa, socchiuse le ali, il suo volo si era di colpo spezzato al frastuono della fucilata e, dalle fauci della mia cagnetta, era divenuta, con una carezza, soffice e delicata preda tra le mie mani.


La caccia alla beccaccia mi piaceva così: nel bosco da solo, con il mio cane e con la mia vecchia doppietta Franchi, con canne di 71 cm. e con strozzatura a tre ed una stella. Il classico fucile da caccia dei nostri nonni. Un fucile generico che si adattava più o meno a tutti i tipi di caccia, che però, specialmente nella caccia alla beccaccia nella fitta vegetazione, aveva il suo tallone di Achille, dando così molte più possibilità di fuga alla regina, come, del resto, le era giustamente dovuto.


Si, almeno questo rispetto le era dovuto, tanto era bella e appagante la sua apparizione. Un pezzo di bosco d’autunno che, all’improvviso, prende vita, volando via sfarfallando, come una foglia secca portata dal vento.


Non sopportavo e, non solo intimamente, detestavo tutti quei figuri che la insidiavano accerchiandola, senza concederle alcun minimo vantaggio, utilizzando tutti i ritrovati della tecnologia, come beeper e fucili con canne slug o paradox.


Salvo, poi, ferocemente invidiarli, tutte le volte che la perfida regina, al frastuono di due schioppettate, era volata via dal pietrificato cane, che rimaneva a guardarmi sconsolato nella mia desolazione dell’attimo perduto, attimo che mai più sarebbe tornato identico.


Come detto, quella mattina di novembre mi ero infilato nella boscaglia, nella speranza di incontrare una beccaccia. Qualche giorno prima, Dik ne aveva già fermata una; la sua prima nella vita, che, in preda ad un misto di incredulità e di emozione, gli avevo vergognosamente “padellato”, senza poi riuscire nemmeno a ribatterla.


Allora, quella mattina, ero deciso a riscattarmi, chiudendo il cerchio perfetto della caccia. Si perché la caccia, così come tutte le belle cose della vita, è ricerca della perfezione che si può rappresentare come un cerchio, che, tutte le volte che non viene chiuso perfettamente, lascia un senso di vuoto, di disagio di inadeguatezza.


Mentre, quando si chiude perfettamente, colma e gratifica a tal punto l’animo, che ti senti un vero signore in pace con te stesso e con il modo intero, anche se solo per un attimo. Infatti, dopo un po’ avverti un senso di dolce malinconia o nostalgia, tipico del desiderio mai soddisfatto: in pratica il desiderio del desiderio.


Dolce malinconia o nostalgia come quella che mi affliggeva al ricordo di lontane stagioni di caccia e dei loro scomparsi protagonisti.


Pensieri e ricordi questi che spesso mi accompagnano, mentre, furtivo come un ladro, tento di penetrare la natura, madre e matrigna, per rubarne i segreti: dove il bosco è bosco.


Mentre questi pensieri affollavano la mia mente, con la coda dell’occhio vidi Dik che alzava il muso e tirava di naso, in corrispondenza di un cespuglio di rovi. Il cespuglio, che non era tanto grande, aveva sul retro la parete del canalone, sulla sua sinistra un piccolo rio, che proprio in quel punto formava una cascatella tra due grandi massi scuri, e sulla destra un burrone.


-Allora Dik cosa c’è– E lui girava lentamente la testa verso di me per poi puntare nuovamente verso il cespuglio. -Dentro. Vai dentro!-


Ma Dik non entrava, pur continuando nel suo atteggiamento, che non riuscivo a decifrare, perché non conoscevo ancora bene tutte le sue reazioni. Qualcosa c’era senz’altro, ma non poteva certo essere una beccaccia e neanche una lepre.


Forse un fagiano o una pernice rossa che non voleva saperne di alzarsi in volo? A volte può capitare. L’atteggiamento di Dik, però, me lo faceva escludere. Se fosse stato un fagiano o una pernice rossa avrebbe fatto una vera e propria ferma, e non quelle tirate di naso a collo allungato. Ormai la mattina se ne era quasi completamente andata; di beccacce neanche l’ombra, allora ero curioso di vedere che cosa Dik mi segnalava, così almeno lo avrei conosciuto meglio.


Repentinamente il cielo si fece scuro, minacciando pioggia. In lontananza, le campane di una chiesa annunciavano la fine della messa di mezzogiorno.
-Ma vai dentro, Dik, e fammi vedere che cosa c’è. -


Mentre così dicevo, dal cespuglio si udì un grugnito minaccioso.
Mi venne la pelle d’oca e mi si drizzarono i peli.


In un attimo fotografai la situazione. Dietro in pratica un muro, da una parte una cascata, dall’altra un burrone: non può altro che venirmi addosso. Mentre, pensavo questo, avevo fatto un passo indietro e automaticamente, senza neanche accorgermene, avevo già aperto il fucile, tolto la cartuccia a pallini dalla prima canna e inserita una cartuccia a palla unica, che portavo sempre con me. Si, perché questa situazione l’avevo già immaginata e sognata tante volte. Per questo portavo sempre con me due cartucce a palla unica. Soltanto due, perché mi ero immaginato che, in un primo momento, non avrei avuto il tempo necessario per sostituirne più di una, e la seconda mi sarebbe potuta servire, qualora non fossi riuscito a ucciderla con il primo colpo, per finire la “bestia”, ovvero per difesa mia e del mio cane.


L’incontro, quasi a corpo a corpo, con la “bestia” mi aveva sempre affascinato, fin da quando giovinetto andavo a cercarla, insieme a mio fratello, sotto la guida del nostro vecchio mezzadro, di origine montanara. Allora, alle prime ore del giorno, cioè praticamente di notte, questi ci veniva a svegliare. Mentre normalmente vestiva in maniera veramente dimessa, in quelle occasioni si presentava tutto elegante nella classica giacca di velluto marrone da cacciatore e assumeva nei nostri confronti l’atteggiamento di un vero e proprio precettore.
Non appena arrivati sul posto di caccia, iniziava a seguire le tracce della “bestia”, fornendoci tante spiegazioni.


-Qui ha dormito questa notte. Qui ha “rugato” in cerca di cibo. Qui si è rotolata nel fango e contro questo alberello si è venuta a grattare. Guardate qua. Si tratta di una “bestia” molto grossa, lo si capisce dal segno del fango lasciato sull’albero.-


Noi, cioè io e mio fratello, ci guardavano negli occhi e poi volgevamo tutt’intorno lo sguardo indagatore, impugnando stretti stretti i fucili in attesa dell’attacco imminente. Attacco che, però, non si è mai verificato. Anzi, ora che ci penso bene, il vecchio la “bestia” ce l’aveva fatta vedere mille volte con l’immaginazione, ma mai una sola volta in realtà. Per questo in noi la “bestia” era divenuta sempre più mitica e il suo incontro desiderato. Poi, un giorno, il vecchio ci raccontò che, in nostra assenza, aveva avuto un epico scontro con un enorme esemplare che gli si era parato di fronte, in una piccola radura in mezzo al bosco. Lui aveva fatto fuoco una volta e poi ancora una volta, colpendola in pieno, ma nonostante ciò la “bestia”, dopo essere crollata a terra, si era ripresa e lo aveva caricato di nuovo. Lui, che aveva prontamente ricaricato la sua doppietta, l’aveva colpita ancora due volte e poi due volte ancora. L’ultimo colpo glielo aveva sparato a bruciapelo in testa per finirla, una volta per tutte. Quindi, aveva deciso di appendere il fucile al chiodo.


Quando raccontava la sua storia io rimanevo affascinato e mi immaginavo la scena di questo omino, si perché il vecchio era proprio un omino magro e minuto, da solo in mezzo al bosco che, dopo aver inutilmente seguito tante tracce e tanti indizi, aveva finalmente avuto l’incontro da sempre cercato; e ne era uscito sazio a tal punto che non ne desiderava un altro. Negli anni anch’io ho avuto l’occasione di abbattere qualche bell’esemplare, ma sempre a distanze notevoli e in battute con altri cacciatori. Quello che desideravo era l’incontro da solo e a tu per tu con la mia “bestia”. Per questo motivo mi ero attrezzato. Via il semiautomatico, troppo difficoltoso e rumoroso il cambio di cartuccia. La doppietta, invece, era veloce e silenziosa. Il rumore si produceva soltanto al momento della chiusura, ma a quel punto il fucile era già pronto allo sparo.


Ma torniamo alla nostra storia: un grugnito minaccioso era uscito dal cespuglio.
A quel punto Dik si era messo ad abbaiare come un forsennato, saltando sulle quattro zampe. All’improvviso un fragore di rami spezzati e dal cespuglio appare una grossa massa nera che, per fortuna, si butta sulla mia sinistra, proprio dove c’è la piccola cascata tra due grossi massi. Chiudo la doppietta e d’imbracciata faccio fuoco.


Vedo proprio il lampo uscire dalla bocca del fucile nell’aria che si è fatta scura.
Sento come un grido e vedo davanti a me, a non più di tre metri, un’enorme massa nera che sbanda con il posteriore e si va a incastrare proprio tra i due grandi massi della piccola cascata. La “bestia” seduta si tiene dritta puntando le zampe anteriori.


Sbuffa, digrigna i denti e mi guarda con occhi iniettati di sangue. Il piccolo laghetto a valle della cascatella è completamente rosso del suo sangue. L’ho colpita al posteriore. Ma avrà ancora la forza di alzarsi e di attaccarmi?


Rimango immobile come se fossi spettatore e non protagonista della scena.


Dik continua ad abbaiare come un forsennato, saltando da una parte all’altra, in preda ad una vera e propria isteria. Io, invece, sono calmo. Troppo calmo, come in una bolla d’aria. Di fronte, la “bestia” enorme e di grande dignità, mi suscita un profondo rispetto.


“Perché? - mi sembra chiedere. - Non vedi che ho fatto di tutto per evitarti e lasciarti andare libero, insieme al tuo cane? Io sono un vecchio “solengo”, padrone e signore di tutto questo territorio e avrei potuto spazzarti via, prima che tu te ne rendessi conto. Invece, ti ho dato tutto il tempo per andartene altrove a rincorrere le tue piccole prede: le “regine” del bosco. Ma tu mi hai tradito ed hai tradito te stesso, trasformandoti in un meschino bracconiere. Io ho avuto rispetto di te; tu non ne hai avuto di me. Non dovevo essere io la tua preda, oggi, e tu lo sai.”


Così, mi parlava la grande “bestia” annusando l’aria che si era fatta sempre più densa ed umida. In lei vedevo la grande sorpresa per quanto era accaduto, ma nello stesso tempo la fierezza di chi non teme di affrontare la propria fine. Nessuna nostalgia, nessun rimpianto, ma solo una feroce rabbia per la futura e prossima assenza di vita. Vita che, anche ora colpita a morte, la pervadeva completamente fino all’ultimo suo respiro. Mi rendo conto che la “bestia” non può più alzarsi perché la fucilata le ha paralizzato le zampe posteriori e che sta morendo dissanguata.


Allora, apro il fucile, tolgo la cartuccia sparata, inserisco la seconda cartuccia a palla, prendo la mira e faccio fuoco.


La “bestia”, colpita in pieno dalla fucilata, ha un ultimo sussulto e ancora la forza di investirmi con un grido d’addio terrificante.


Un grido che porta con sé tutta la vita che, di colpo, le è venuta a mancare e che come un gelido vento si disperde nel bosco.


Non ho smesso di andare a caccia. Ma da quella volta so che, in qualsiasi momento, potrei divenire io la preda di un qualche inatteso bracconiere della vita, che non rispetta le regole del gioco e ti spegne la luce, non per cattiveria, ma solo per avventura.




Giuseppe Pizzigoni

 

Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it

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