Esisteva un grande reciproco rispetto fra i due, rafforzatosi gradualmente nel corso degli anni, e che andava ben al di là della passione che li accomunava.
Solo molto di rado si recavano a caccia assieme “T” ed “S”, in quanto il primo aveva diversi gruppi di amici ed il secondo molti parenti con i quali andare. Così, solo quando le tante compagnie dell’uno e dell’altro erano impegnate, stanche da precedenti cacciate o per qualche motivo impossibilitate, i due si accordavano con grandissimo piacere per una battuta.
Erano due grandi camminatori, dotati entrambi di un fisico massiccio ed avvezzo alla fatica ed animati da grande spirito sportivo; certamente sapevano bene che se fossero usciti sempre in coppia avrebbero costituito un duo agguerritissimo.
Per i motivi sopracitati, ciò non era possibile con tanta frequenza, ma di questo non si dolevano e quando si incontravano facevano comunque trasparire che in una giornata particolarmente buona o in qualche difficoltà occorsa durante la caccia, avrebbero tanto gradito la reciproca presenza. Assistevo diverse volte alle loro chiacchierate in quanto uno dei due era mio padre, ed io, ancora imberbe, avevo l’abitudine di lasciare qualunque attività per ascoltare i discorsi dei cacciatori.
Mi suonava strano e mi meravigliava sempre, anche se non chiedevo spiegazioni al riguardo, il fatto che, quando dialogavano, non si dessero del Tu ma del Lei, pur se fra loro traspariva una notevole confidenza. Così i loro discorsi amichevoli e cordialissimi erano sempre contraddistinti da questo particolare, che comunque e sicuramente non era dettato dalla voglia di mantenere le distanze.
Usavano sempre, quando si rivolgevano all’altro, l’appellativo “Signor” con l’unica differenza che per mio padre era conseguenziale il cognome, per l’altro il nome.
Credo che questa variante, ma tutt’oggi non ne sono ancora certo, fosse dettata dalla differenza di età in quanto mio padre aveva una decina di anni in più.
Non mi dilungherò oltre nella ricerca dei motivi che avevano generato questa usanza che non venne mai valicata, ma voglio ricordare qui un fatto al quale assistetti, che mi confermò il grande rispetto che i due provavano l’uno per l’altro e che mi dimostrò il notevole spirito di cavalleria che li contraddistingueva.
Era un pomeriggio in cui i Signori “T” ed “S”, con me immancabilmente presente, stavano chiacchierando davanti a casa quando decisero di effettuare un giro di un paio d’ore prima che facesse sera, giusto come dissero, per sgranchirsi le gambe e far muovere i cani.
Ci trovavamo a Crupi, una località collinare vicina alla città nella quale tutti dimoravamo abitualmente. Noi eravamo lì in qualità di villeggianti, mentre “S” era in visita alla madre che risiedeva in quel luogo tutto l’anno. Era una zona molto adatta alla caccia e quindi, senza utilizzare le automobili, i due uomini, presi i fucili, qualche cartuccia e liberati due dei loro cani, iniziarono una di quelle uscite per le quali mi era facile ottenere il permesso di aggregarmi.
Ci incamminammo in direzione della località “Madunnuzza”, inoltrandoci nei fitti boschi di querce e castagni dove capitava, talvolta anche in autunno non ancora inoltrato, di trovare qualche beccaccia che lo aveva voluto precedere.
Ricordo quanto mi piacevano quelle zone nelle quali si poteva andare con profitto anche a funghi, dove stavo lungamente ad osservare le edere rampicanti che imprigionavano gli alberi fin quasi a soffocarli, ed i muschi che prosperavano nelle zone d’ombra in cui si mescolavano l’odore di muffa con quello di umido e di fresco.
Era là che i miei giochi di ragazzino mi portavano a correre all’inseguimento delle mie fantasie, oppure, accompagnato dal cane, cacciavo uccelletti con carabina e trappole, sognando che un giorno in quei luoghi sarei stato un vero cacciatore.
Oggi, quando percorro nel mio revival estivo con la macchina la strada che proseguendo porta verso Colle San Rizzo, non trovo il coraggio di scendere a fare un passo in quei boschi perché so che non riuscirei a rivedermi come ero allora, e mi vengono gli occhi lucidi pensando alle tante cose che mi erano familiari e che non ci sono più.
Quel giorno seguivo nel dovuto silenzio i due uomini ed i cani nel loro lavoro, quando ad un tratto deviammo verso un avvallamento posizionato più in basso, dove in un certo punto dalla roccia usciva costante e fredda una vena d’acqua. Era una modesta sorgente dalla quale scaturiva un rigagnolo che si faceva strada nel terreno e che, dopo una decina di metri, impoveriva e scompariva nuovamente nella terra, ma che nel suo pur breve percorso consentiva ai pochi viandanti, e soprattutto ai più numerosi animali, di dissetarsi. Era una zona bellissima che non conoscevo ancora, dove la vista spaziava verso la vallata che sembrava sprofondasse direttamente nel mare congiungendo i suoi due versanti nello stretto di Messina distante circa quattro chilometri in linea d’aria.
Nel punto in cui ci trovavamo il declivio diventava più ripido e la zona, meno coperta dagli alberi, presentava una vegetazione più bassa composta da quercioli, rovi e ramaglia, con un principio di seccume che la calura estiva aveva accentuato.
Fu lì che uno dei cani allargò di molto ma con fare perentorio verso sinistra, seguito subito a ruota dal compagno.
Loro avevano sentito l’odore, noi il canto…
Quasi sempre verso quell’ora, soprattutto nei periodi caratterizzati dalla calura, le pernici, chiamandosi, si radunano all’acqua per rinfrescarsi per poi continuare a razzolare senza allontanarsi di tanto, e talvolta, se non vengono disturbate, finiscono col trascorrere lì la notte.
Scendemmo lungo il costone lentamente, compiendo un percorso a serpentina per evitare di scivolare e per avvicinarci ai cani che si erano messi in ferma vicino a delle rocce. “T” ed “S” si posizionarono una decina di metri indietro senza provocare rumore per non insospettire le pernici ed attendere con calma che si involassero verso il basso come fanno sempre.
Fu in quel mentre che vidi i due cacciatori farsi reciprocamente con la mano un gesto di invito concedendo l’uno all’altro l’onore di sparare. Sentii le due voci quasi all’unisono confondersi nel proferire: “prego, spari Lei!”
Proprio in quel mentre, avvenne il frullo consecutivo di ben sette pernici.
“T” ed “S” non erano certo dei novellini e, per quello che avevo visto in varie occasioni, nemmeno dei tiratori di second’ordine ma, per non fare scempio di tutto il bel volo e forse anche per ricambiare al collega una cortesia analoga ricevuta in altra occasione, avevano accordato che solo uno dei due avrebbe sparato. Ma chi?
L’indugio portò all’inazione, ed il “prego, spari Lei!” fece trascorrere i pochi preziosi secondi utili nei quali si può coronare con il successo del tiro l’azione di caccia. D’altro canto, chi per primo dei due avesse tirato, avrebbe contravvenuto alle leggi della cavalleria non rispettando l’invito poco prima accordato all’amico.
Fu così che, pur avendo imbracciato e puntato entrambi, non sparò nessuno e le pernici volarono via prendendo il largo indenni. Rivedo quella scena tutte le volte che qualche compagno mi ruba la fucilata su un capo più prossimo a me che a lui (e che vorrei lasciare allungare per non sciuparlo con un tiro troppo ravvicinato) o che, peggio ancora, spara ad un animale che è già stato sicuramente colpito e sta cadendo.
E’ così che ricordo assieme “T” ed “ S”, due cacciatori e soprattutto due signori di altri tempi, con tutta la possibile ammirazione per la loro straordinaria educazione.
Rimisero entrambi sorridenti il fucile in spalla come se nulla fosse accaduto e, sulla strada del ritorno, non recriminarono in alcun modo ma parlarono solo della bella ferma dei cani e di come si erano involati bene i selvatici.
Dopo il trasferimento della mia famiglia a Milano, durante le ferie estive che trascorrevamo nella nostra casa al mare, era una consuetudine per mio padre andare a trovare i suoi vecchi amici ed io lo accompagnavo.
Ovviamente una tappa più che obbligatoria era l’ufficio del Signor “S” dove, pur nella brevità di pochi minuti, venivano riaffermate l’indimenticabile amicizia e la stima reciproca, e si manifestava la grande gioia dovuta al piacere di rivedersi.
Arrivò per me, ma non per mio padre, l’estate del 1986 e, fra i miei doveri, ci fu anche quello di avvisare amici e conoscenti della sua morte.
Per il Signor “S” non potevo demandare l’incombenza ad un biglietto o ad una telefonata e decisi che lo avrei fatto di persona.
Quando bussai alla porta del suo ufficio, lui mi venne incontro abbracciandomi per salutarmi e con sguardo interrogativo mi chiese immediatamente, come era ovvio, di mio padre. Era la prima volta che mi vedeva senza di lui e capì prima che potessi rispondere. Si ritrasse, dirigendosi verso la finestra che aggettava su un bellissimo giardino, e stette un po’ a guardare fuori dandomi le spalle senza dire nulla.
Quando si girò verso di me aveva gli occhi pieni di lacrime e ci abbracciammo nuovamente.
In quel momento non potei non pensare al volo di pernici al quale non aveva tirato per favorire l’amico, così come sono certo che anche lui sarà tornato con il ricordo a quel pomeriggio nel quale mio padre aveva rinunciato a sparare.
Rosario Angelo Trimarchi
Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it