Ritorno sempre volentieri lungo la Monocchia. Gli occhi percorrono i luoghi consueti e la mente cammina per i sentieri della memoria. Quell'anno tutto era pronto per l’apertura: il tascapane con le cartucce sopra il comò e la doppietta, ben ingrassata, era stata controllata e ricontrollata. Avevamo preparato il capanno, mio padre ed io, e adesso speravo solo che mi avesse portato a caccia con lui, all'indomani.
La preparazione del capanno era un rito che si ripeteva ogni anno alla vigilia dell’apertura. Mario, come tutti gli altri cacciatori della zona, faceva il capanno sempre nello stesso posto, lungo il fosso di Picchio. La quercia della Croce, la quercia del Chiodo, le quattro querce dopo la prima selva, offrivano i loro rami a tortore e tordele che, transitando da una stoppia all’altra, vi sostavano nelle ore più calde.
I capanni venivano costruiti con canne, rami di sambuco e vitalbe, avendo cura di non lasciare altre aperture oltre a quella che serviva per sparare, naturalmente a fermo. Il capanno per la quercia della Croce veniva costruito sopra un loppio, ai piedi della quercia stessa, così che la mimetizzazione risultasse perfetta. Sopra un loppio era anche fatto il capanno per la quercia del Chiodo. Si chiamava così perché un chiodo, infisso nel tronco del loppio, permetteva di accedere, non senza difficoltà, alla postazione sopraelevata. Quella mattina mio padre mi chiamò. “Ci vieni?“ disse, ma non ce ne fu bisogno, perché ero già pronto e vestito. Fiero di portare il tascapane a tracolla, seguivo i passi di mio padre che attraversava stoppie e maggesi. Era una notte calda e stellata di fine estate. I cani guaivano in modo strano da casolare a casolare, consapevoli che il gran giorno era giunto. Passammo davanti alla casa di Pilato proprio mentre Gino, Mario e Vincenzo stavano uscendo. Anche Vincenzo, dodicenne, portava il tascapane a tracolla.
Noi ragazzi eravamo i portatori: all’andata tenevamo le cartucce, la colazione e la bottiglia dell’acqua, mentre al ritorno mostravamo, fieri, il mazzo di selvaggina al cui abbattimento avevamo, in qualche modo, contribuito. Ci dirigemmo tutti verso il fosso di Picchio. “Come sarà quest’apertura?” “Le tortore c’erano, prima del temporale, chissà se se ne sono andate!” “Quante cartucce hai fatto?” “Ce n’ho venticinque, polvere Anigrina e piombo dell’otto, dovrebbero andar bene con questo tempo.” “Oh, ecco qua, noi siamo arrivati. Ci vediamo dopo.
In bocca al lupo!” Certo, il capanno era stretto per due. Me ne stavo rannicchiato in un angolo ed avevo praticato una piccola apertura, in modo da poter osservare la sommità della grande quercia. L’arrivo di una tortora era seguito dallo sparo. A volte vedevo l’animale cadere a terra gelato, a volte volava via come se niente fosse accaduto. “Era infrascata – disse Mario – peccato! Era una bella tortora, di quelle grosse.” Incontrammo altri cacciatori, quando decidemmo di tornare a casa. “Com’è andata?” “Insomma... poteva andare meglio. Quelle cartucce, hanno troppa polvere e fanno la passata. Avrei potuto prendere altri tre o quattro pezzi!” “Mi pare che ogni anno sia sempre peggio, gli animali diminuiscono e i cacciatori aumentano. Ma noi a Montefano siamo fortunati ad avere la Monocchia, e questi fossi, e quante querce.... ".
Le querce…. Le conoscevo tutte. Più volte le avevo scrutate, scorrendone i rami con lo sguardo, alla ricerca di improbabili selvatici. “Avete sentito? In paese dicono che a Roma hanno fatto una nuova legge che proibisce di abbattere le querce!” Che bisogno c’è di fare questa legge, pensavo. Perché si dovrebbe abbattere quest’albero secolare. Dà ombra, ossigeno, ghiande. Non c’è proprio bisogno di questa legge. La mattina seguente incontrai Vincenzo. “Andiamo, andiamo a vedere!” mi disse. “A vedere cosa?” “Lassù, lungo il fosso di Picchio, stanno abbattendo le querce!” “No, non può essere, c’è anche la legge, adesso.” “Non è ancora in vigore, ora tutti le stanno tagliando per paura di non poterlo più fare.” Andammo da Picchio. La quercia della Croce che, con le sue braccia possenti aveva visto passare cinque, forse dieci generazioni di cacciatori, era là sul campo, ridotta a pezzi, assieme a tante altre querce. Aveva resistito per più di cent’anni ai fulmini e alle intemperie ed era stata abbattuta dalla stupidità dell’uomo.