La poltrona era comoda come poche altre volte mi era capitato e, fatta eccezione per l'energumeno addormentato che mi sedeva vicino, stavo per gustarmi una piacevole serata al Teatro dell'Opera. Mi sentivo fortunato a stare lì in platea e cercavo di catturare lo sguardo degli altri spettatori per capire se avrebbero intuito chi fossi: lavorare come critico musicale mi piaceva, ma per tanta gente ero soltanto un nome a cui poche persone avrebbero saputo associare un volto o una voce. Cercavo di ingannare il tempo con questi pensieri quando finalmente la sala diventò più scura: ero stato accreditato per la "Maria Stuarda" di Gaetano Donizetti ed ero emozionato e curioso perché in tanti anni non ero mai riuscito a vederla dal vivo. Il primo atto filò liscio come l'olio, nonostante qualche strattone per svegliare l'energumeno che aveva iniziato a russare già dalla sinfonia. Poco dopo l'inizio del secondo atto avvertii una sensazione particolare. Il soprano aveva appena terminato la sua cavatina e il suono delle trombe introdusse un coro:
Al bosco, alla caccia!
Il cervo si affaccia
Dal colle muscoso,
Poi fugge scherzoso
Del rivo alle sponde:
Si specchia nell'onde;
Correte veloci
Quel cervo a ferir.
Mi era familiare come pochi pezzi musicali, anche se facevo fatica ad associarlo a quella sensazione particolare. Lasciai terminare l'opera con l'ambascia nel petto e applaudii quasi distrattamente. Lo ammetto: ero più interessato a ricollegare il coro a un fatto che avevo vissuto personalmente. Il mattino seguente scrissi senza troppa convinzione la recensione per il mio giornale e all'improvviso una foto di mio nonno mi indirizzò nella direzione giusta, tutto fu immediatamente chiaro. Quel coro era la "canzoncina" che ascoltavo sempre da piccolo quando mio nonno andava a caccia.
Io, mio fratello e tutti gli altri nipoti salivamo sul vecchio carretto trainato dall'asina Filomena che sbuffava per il peso e la pendenza della salita: nonno Mimmo ci faceva salire volentieri prima di farci scendere, salutarci e addentrarsi nei boschi con le brocche piene di latte. Sui Monti Sibillini faceva freddo, ma eravamo ben coperti: a me, bimbo timido ma curioso, piaceva soprattutto pulire il cartello del paese dalla neve e scoprire il nome. SELVAPIANA: i miei occhi leggevano quasi con orgoglio quelle lettere e il guanto si muoveva lentamente per scoprirle una dopo l'altra. Nonno era un pastore sempre sorridente e riservato e amava raccontare davanti al camino la giornata trascorsa col gregge una volta tornato a casa. Ci coinvolgeva con quegli aneddoti montanari che accendevano la mia fantasia, mentre addentava una fetta di formaggio e richiudeva con cura il coltello. Per arrotondare lo stipendio andava a caccia: i boschi di Selvapiana erano pieni di cinghiali e non erano rari i caprioli, ma a nonno chiedevano soprattutto di catturare gli istrici di notte. Lo schioppettio dei ceppi che bruciavano interrompeva di tanto in tanto quei racconti e a me piaceva immaginare pastori e animali come protagonisti di una fiaba fantastica, quasi soprannaturali. Adoravo come poche cose al mondo la grande conchiglia che fungeva da corno e che nonno portava a tracolla per tenere lontani i lupi dalle pecore mentre si accendevano i fuochi. Era la stessa conchiglia che faceva iniziare la cacciarella e nonno ne parlava sempre quasi come di un gioco. Prima c'era il suono della conchiglia, poi si intonava il coro della Maria Stuarda, imparato chissà come da quei pastori marchigiani che non erano mai stati in un teatro d'opera, e infine cominciava la caccia vera e propria. Ora che ero cresciuto avevo imparato qualcosa di più su questa tecnica leggendo qualche libro specializzato, mi sarebbe piaciuto vivere in prima persona quei momenti. Nonno non c'era più da anni, ma sarebbe stato un bel modo per ricordarlo. Non chiamavo spesso al telefono mio fratello e infatti fu sorpreso nel sentire la mia voce: anche a lui erano rimasti i ricordi di quei racconti e non ci volle molto tempo per convincerlo a organizzare un viaggio fuori stagione nelle Marche. Chiamai anche i miei due unici cugini di primo grado e li convinsi senza difficoltà: eravamo tutti cacciatori, ma imbracciavamo il fucile quando il tempo ce lo permetteva. Vivevamo in città diverse e distanti tra loro, ma sapevamo di poter contare l'uno sugli altri. Ero riuscito a riunire una parte della squadra e ci salutammo silenziosamente una volta arrivati a Selvapiana. Il carretto c'era ancora, le poche case sparse non erano cambiate poi tanto in quegli anni e soprattutto era identica l'aria frizzante e fresca che si poteva respirare a pieni polmoni. Indossai i guanti e, come se fossi ancora un bambino, pulii dalla neve il cartello con la scritta del paese. C'erano proprio tutti, cacciatori, canai, battitori e capocaccia: il lungo silenzio che durava da ore fu interrotto dal coro che aveva segnato la nostra infanzia e che avevo "ritrovato" in un teatro. Anche i cani sembravano voler intonare le stesse note. La conchiglia di nonno Mimmo funzionava ancora perfettamente: un soffio di vento mi accarezzò le guance, la macchia era in vista e alla cacciarella mancava davvero pochissimo. Non eravamo molto diversi dai pastori dei decenni precedenti e prima di puntare il fucile ripensai a nonno e ai suoi occhi teneri che mi avrebbero osservato dal cielo terso sopra i Monti Sibillini.
Simone Ricci
Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it