“Gli alberi del bosco sono per me come amanti e di questo paesaggio io non so fare a meno”. Sono parole di John Constable, il più famoso, insieme con William Turner, tra i pittori paesaggisti britannici. La bellezza degli alberi ci emoziona. E perfino il loro profumo, secondo recenti studi, è benefico. Si chiama silvoterapia la cura tesa a rinvigorire il nostro sistema immunitario grazie ai cosiddetti olii essenziali. Questi olii, i terpeni, emanano sottilmente dai tronchi degli alberi. Il bosco ci inebria con questi suoi tenui effluvi e, soprattutto, affascina coloro i quali avvertono, quotidianamente, il pesante giogo del labirinto di cemento rappresentato, per loro, da una metropoli. E poiché molti vivono la grande città quasi alla stregua di un purgatorio dantesco essi desiderano, almeno periodicamente, rigenerarsi nel verde. Anche per questo siamo rapiti dal fascino del bosco, dalle sue creature, da quella sua anima profonda, nascosta, che, misteriosamente, muove il tutto. Se ci fermiamo ad ascoltare quell’anima ne percepiamo la polifonia. Alla prima percezione, però, non l’avvertiamo come un’armonia. Ci ricorda, semmai, una sinfonia di Schönberg, l’allievo che, con la cosiddetta musica dodecafonica, portò alle sue estreme conseguenze le intuizioni musicali di Gustav Mahler.
Il bosco ospita infatti un’orchestra, apparentemente anarchica, in cui sembra che ogni orchestrale stia accordando il suo strumento. Una confusione fittizia che riflette il mirabile disordine con cui il Grande Architetto dell’Universo ha realizzato il matrimonio consumato a terra tra alberi, rami spezzati, arbusti, tronchi marcescenti, rovi e cespugli di un bosco che sia poco modificato dall’uomo e quindi conservatosi in uno stato naturale. Ma, come nella sublime distribuzione irregolare delle piante, in quell’orchestra non c’è vero disordine, c’è libertà di suono, di espressione. È un caos che crea, a ben ascoltarlo, la sublimazione dell’aspra musica dodecafonica.
Una successione di gorgheggi, di trilli, di fruscii, di picchiettii, di grida d’allarme, di latrati rochi e selvaggi, di versi che sfuggono a una rapida identificazione. È l’unica forma di disarmonia apparente che, restando fedele a se stessa, continua a generare, a una percezione più attenta, un’armonia di fondo. L’esatto contrario della dissonanza che si avverte in ogni città metropolitana del terzo millennio.
Tradendo l’utopia della città ideale, dipinta da un anonimo artista del Rinascimento, ogni metropoli contemporanea, per quanto disegnata o rimodellata da celebrati architetti e urbanisti, comunica invece all’osservatore meno distratto un messaggio di disarmonia distopica. I suoi grovigli stradali, le sue autostrade congestionate, i suoi aeroporti gremiti, perfino i suoi centri commerciali vorticanti di folla, le nuove “chiese laiche domenicali”, secondo la felice definizione di un raffinato teologo cristiano, fanno risuonare note assordanti e confuse nella cassa armonica dell’uomo del terzo millennio.
È l’era dell’antropocene, secondo il biologo statunitense Eugene F. Stoermer, cioè del dominio assoluto dell’uomo sulla natura, delle modificazioni operate dall’intervento umano sull’ambiente, quelle modificazioni che l’uomo antico, che si nasconde dentro quasi tutti i cacciatori, cerca, almeno episodicamente, di dimenticare, quando si immerge nell’arcaico tempio naturale che gli è più congeniale: il bosco. In quella disarmonia apparente egli si ritrova e ne sa ascoltare i suoni: il suono del vento, quando gonfia le fronde e fa cantare le foglie, l’improvviso suono del silenzio, lenimento degli affanni del cuore. Prevale su tutti, però, il frequente, già dipinto chiacchiericcio delle creature del bosco. Tra quei trilli, quei gorgheggi, quei fruscii, egli cerca di distinguere il rumore del ramo spezzato, il brontolio di una scrofa, il raro grugnito di un verro. È lui, il cinghiale, il signore del bosco. E più è fitto e più si sente sicuro e padrone. Un Re di macchia, come recita il titolo di un famoso romanzo di Bruno Modugno che attribuisce a un bracconiere maremmano del secolo scorso, la qualifica che spetta, di diritto, al grande verro solitario: il solengo, il possente signore delle selve. Un re barbaro, certamente, ma pur sempre un sovrano, questo è il solengo: si muove e compie razzie e scorribande soprattutto di notte, si lava nel fango, si gratta sulla rugosa corteccia degli alberi, travolge ogni cosa, uomo o animale, si pari sulla sua via di fuga, infligge sciabolate micidiali ai suoi nemici o rivali con le lunghe difese affilate sui “coti”, compete con la volpe in astuzia, ma anche in olezzo di orina e di ormoni. E, in fondo, non ha nemici che lo possano impensierire, a eccezione dell’uomo armato di fucile (cui, però, ogni tanto, regala ferite mortali) e del rinnovato inquilino delle selve: il lupo.
Un predone affascinante e temibile, tornato a insidiare in branchi in lungo e in largo, nel territorio dello Stivale, bestie selvatiche, domestiche o d’allevamento. Un predone che, tuttavia, non si sognerebbe mai di attaccare, da solo o in un piccolo branco, un grosso maschio adulto, ma preferisce attaccare cinghialetti striati, giovani femmine, o, in assenza di questi ultimi, individui isolati malati o più deboli. Questi animali, ci dicono gli zoologi, rappresentano ormai quasi la metà delle sue prede abituali. È una questione di probabilità di successo e di risparmio di forze durante la predazione. Il risultato è garantito: piccoli e cinghiali debilitati sono più alla portata delle sue poderose fauci, il dispendio energetico, in questi casi, è sempre minore e la carne, nel caso dei prediletti cinghialetti, è decisamente più tenera. Anche il lupo, come il cinghiale, è arrivato ormai ovunque. I suoi escrementi stoppacciosi, le sue orme larghe e profonde, sono state avvistate anche nei pressi di città popolose come Roma.
Nella campagne prossime alla capitale, fino a vent’anni fa, era solo una labile memoria desunta dai racconti di pochi tra i più anziani abitanti di quella porzione dell’agro romano che è collocato a nord ovest di Roma. I vecchi ricordavano come fino alla prima metà del secolo scorso non era infrequente la discesa a valle di individui isolati, a volte piccoli branchi, provenienti dai vicini monti della Tolfa. Mai però, in epoca moderna, si era avvicinato così tanto alla capitale.
Il Canis lupus è il miglior regolatore “ecologico”, il naturale antidoto contro la proliferazione eccessiva dei cinghiali, ci dicono gli esperti. Gli allevatori, come è facile immaginare, non condividono l’entusiasmo dei ricercatori e dei naturalisti. I pastori non sanno nulla di “dispendio energetico”, ma sono perfettamente consapevoli, come vedremo meglio più avanti, che le greggi al pascolo rappresentano per il lupo ciò che per l’uomo è una tavola apparecchiata: cibo in bella mostra, a disposizione delle sue formidabili mandibole e con poche o nulle possibilità, da parte del pastore, di vietare il ‘self service’. Di questo effetto collaterale del ritorno del lupo parleremo ancora. Si tratta di un animale difficile da avvistare, ma le sue tracce sono inequivocabili e, per la gioia dei lupofili, le feci lasciate a marcare il territorio e le larghe impronte del lupo sono in aumento
ovunque. Anche molti cacciatori, dopo i pastori, almeno quelli poco affascinati dalla sua progressiva diffusione, non sono affatto felici di dover dividere le loro prede con il temuto protagonista delle fiabe del passato, loro continuano ancora a essere irresistibilmente attrattid a altre tracce, quelle, inconfondibili, del vecchio e insidiato re di macchia. “I cinghiali sono ormai pronti a fuggire in branco al minimo segnale di pericolo” si lamentano. Si tratta, però, di una indifendibile posizione corporativa. I cinghiali infatti, quando avvertono la presenza del lupo, tendono naturalmente a modificare la loro strategia difensiva. I giovani, e soprattutto le scrofe con piccoli al seguito, si muovono in gruppo e, quando i lupi si avvicinano, si chiudono in branchi serrati, proteggendo i piccoli raccolti al centro, una tecnica da sempre adottata dalle dirette discendenti dell’uro primigenio, le vacche maremmane, abituate al pascolo brado, sempre pronte a difendere con le loro poderose corna a mezzaluna, i predatori che osino tentare di attaccare i vitelli.
Tutti questi animali: cinghiali, caprioli e oggi anche lupi, insieme con molte altre creature, sono i rinnovati abitanti dei folti boschi che hanno preso il posto dei suoli nudi che caratterizzavano, fino alla metà del secolo scorso, gran parte del territorio nazionale. Una vestizione provvidenziale, seguita alle tante stagioni di incessante taglio del legname destinato ad alimentare cantieri, stufe e focolari
domestici. Il sovrano, però, resta ancora lui, il cinghiale. “Non ci vede bene, ma se noi avessimo il suo fiuto e il suo udito avvertiremmo, a cinquanta metri da noi, il profumo di un fiore e il volo di una farfalla”, disse Federico Odescalchi a uno stupito neofita, al suo primo giorno di cacciarella, mentre ci avviavamo verso le poste predisposte per la cacciarella nella sua splendida tenuta. Giunto alla sua postazione poggiò il fucile scarico a terra e cominciò a ripulire il terreno. “Sto spazzando le foglie intorno a me”, disse ancora, rivolgendosi all’ospite che lo osservava con sguardo curioso, “e quando raggiungerai la tua posta, ti consiglio di fare altrettanto, così se ti dovrai muovere non farai rumore. Una foglia secca che si calpesta involontariamente risuona come uno schianto alle orecchie del cinghiale. È difficile sorprenderlo. Credimi, Il signore delle selve, sente ogni fiato del bosco e non ama affatto essere disturbato durante il suo riposo diurno”.
Timore, attrazione, rispetto, competizione, emulazione. Sentimenti che suscita il signore delle selve quando lo si affronta nel suo habitat di elezione.
A. Giorgio Salvatori
Tratto da IL PATTO COI LUPI
Innocenti Editore. Grosseto 2020
Euro 15:00
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