La serata nel meraviglioso albergo della valle di Fassa volgeva ormai al termine. Gli ospiti, pensando alla levataccia del giorno dopo, iniziavano a ritirarsi nelle loro camere. Ogni persona che aveva assistito ai due giorni precedenti della gara, si era fatto un’idea su chi, tra i due concorrenti finali, aveva avuto più opportunità di vincere quel prestigioso trofeo ‘Trittico su gallo forcello.’ Tre giorni di gara, lungo le meravigliose pendici delle dolomiti alla ricerca di premiare la miglior coppia: l’ausiliare più esperto e il suo conduttore.
Durante la notte due ombre furtive, la mia, piccola, allora ero un ragazzino di soli dodici anni; l’altra invece era quella di mio padre, che come il solito, non era avvezzo a far dormire il nostro magnifico pointer nel ricovero che la direzione dell’albergo riservava, o ancor meglio imponeva, ai cani iscritti alla gara, noi e Al, il nostro ‘campione’, rientrammo in camera furtivamente e ci mettemmo a dormire nei nostri rispettivi letti e lui si accovacciò sul tappeto.
Mio padre si alzò più volte, lo sentivo, anche se si muoveva con cautela, i suoi passi erano leggeri. Una volta in piedi andava alla finestra a guardare il cielo, immaginavo ciò che pensava: “Speriamo che non piova, ci mancherebbe anche l’acqua a mascherare l’emanazione di quei neri mascalzoni con la coda ad uncino.” Rimuginava sicuramente cosi passando vicino ad Al che, sentendo il suo padrone, gli porgeva immediatamente la testa per l’immancabile carezza.
Il cane nel buio della stanza non sembrava preoccupato, anzi, felice di essere accarezzato batteva la coda sul tappeto e sicuramente se avesse avuto il dono della parola gli avrebbe sussurrato: “Non ti preoccupare, dormi e vedrai che domani qualcosa inventiamo.” Quello sguardo comunicava più di mille parole. Il nostro contendente era un setter di un signorotto austriaco condotto da un dresseur italiano. Era un bellissimo cane abituato a cacciare in quelle abetaie abbarbicate su quegli impervi pendii.
Il pubblico era numeroso, oltre a quasi tutti i concorrenti esclusi dalla gara nei giorni precedenti, erano presenti molti valligiani appassionati di cinofilia. Il campo di gara si trovava in un enorme vallone molto scosceso delimitato da due boschi: uno d’abeti e l’altro di faggi. Il terreno portava ancora ricordi di recenti nevicate pur essendo già, se non ricordo male, il mese d’Aprile. I giudici, dopo aver ricordato la condotta da tenere in gara ed aver accettato le mie suppliche per restare dietro a mio padre, ordinarono il lancio dei cani. All’inizio della prova Al, non essendo molto abituato a cacciare su quel terreno con il sottobosco così fitto, si ulcerò il petto. Sulla neve si notavano tracce di sangue fresco.
Il conduttore del setter passandoci vicino ci disse: “Sì è un buon cane, ma su questo terreno ci vuole ben altro.” Mio padre annuì con un sorriso io mi tranquillizzai vedendo anche come nonostante le ferite, il sangue e il dolore quel bestione, il mio bestione, aumentava continuamente l’andatura e le falcate erano sempre più ampie. Sembrava che volasse, un arduo volo sui rododendri sfuggendo alle sue micidiali punte. Ad un tatto Al, dopo aver toccato terra dietro una macchia d’arbusti, non usci più con uno dei suoi sorprendenti balzi. Silenzio assoluto, emergeva solo la testa dritta nel vento alla ricerca di quell’emanazione che l’aveva inchiodato al terreno. Mio padre, in silenzio, alzò una mano e fece un cenno ai giudici che arrivarono con estrema calma, mentre Al era costantemente inchiodato, immobile.
Il conduttore del setter fece in modo che il suo ausiliare si avvicinasse al mio cane. Il setter, dopo un magnifico consenso al primo strappo di Al prese d’autorità l’iniziativa e perlustrò in un attimo tutto il terreno davanti a noi, senza che la sua azione rilevasse la presenza di selvatico. Il setter cessò l’andatura di sospetto e riprese la cerca normale. Al era sempre fermo. Io, preoccupato, dissi a mio padre: “Pa, siamo fuori hai visto il setter ha girato tutto e non è partito niente.” Mio padre non rispose. Uno dei giudici si avvicinò e in modo quasi sconsolato consigliò: “Leghi il cane, probabilmente il selvatico e partito da poco, non vuol dir niente rilanciamo ancora una volta.” Mio padre sottovoce senza staccare gli occhi da Al rispose: “Chiedo il punto e ora concludo.” Il componente della giuria diede una risposta laconica ed acida: “Faccia lei.” Mio padre si avvicinò ad Al lentamente e gli fece una carezza sul dorso che era teso come una corda di violino.
Al alzò la testa e, tra la sorpresa di tutti, avanzò non verso la macchia che era davanti, ma curò un cespuglio isolato proprio sopra di noi e molto arretrato rispetto alla nostra posizione. Un sommesso “brrr …” di mio padre e da quel grosso ginepro si staccò una meravigliosa femmina di gallo forcello che ci fece vincere la gara. Ora, entrambi, sono in un cammino senza fine dietro a meravigliosi selvatici.
Giovanni Merello
Concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore"