Il vortice di gru si presenta puntuale all’appuntamento, come tutti gli anni, preceduto dalla solita festosa strombazzata aerea. Mi giro sudato verso un sole opaco, in questo terzo pomeriggio di marzo, l’avambraccio sul manico della zappa, e aspetto riconoscente che dal suono si materializzi la processione alata. Impercettibilmente, da Libeccio, una riga, poi due, poi ancora una terza, più lontana, solcano l’aria umida verso Levante, sopra i villini di campagna dei cittadini, sopra gli stabilimenti della zona industriale di Santa Maria, sopra il pecorame eternamente chino sul boccone d’erba.
La schiena fiaccata ringrazia la pausa imprevista, mentre gli occhi, da troppe ore fissi sui filari di fave, intenti a decidere le sorti di tante malerbe, si distendono leggeri ad agganciare le sagome in volo. Da fine gennaio sembra passato un secolo; il lavoro arretrato impone la sua gabella. Così, non c’è più tempo per girellare coi cani e i pensieri slegati, né per lasciarsi vivere accarezzando il sogno di un ritorno all’antico. Intanto le gru sono ferme a fare tondino, lente e ciarliere, eppure procedono il viaggio, piccoli pianeti in eterna rotazione, meravigliosamente distanti dalle miserie terrene, dalle pastoie di un’esistenza faticosa e smarrita.
Mi girano negli occhi mentre annaffio la stanchezza con un sorso d’acqua, e le vedo andar via in forma di nuvola, lungo la strada d’aria sempre più trafficata. Tempo di nidi e vite nuove. Il canto isterico dello strillozzo in bella vista sull’eucalipto fa da contrappunto al ticchettio altalenante di un beccamoschino, felici entrambi per le prossime paternità, mentre il cicicin frettoloso delle ballerine parla di partenze imminenti. Vanno e ritornano, e io sto qui ad aspettare, col cuore e il fucile, uno di loro e non contro di loro, anch’io col mio viaggio, forse più breve, forse più lungo, chissà... Oggi la normalità è un macigno: tuffo dev’essere nuovo a ogni costo, e quello che nuovo non è non ha più diritto di esistere, Beato te, nonno mio, che su queste fave ti sei rotto la schiena prima di me, senza nessuno che ti condannasse per questo, o perché scannavi l’agnello, o perché, ancora peggio, ti davi ogni tanto ai beccafichi. Sei nato nell’era della fame, quando il fucile serviva anche ad apparecchiare la tavola, ti sei dissetato con l’acqua dei fossi, hai studiato poco più della tua firma, eppure quanto sapevi.
Quaggiù, nonno mio, nessuno di noi sa più niente di niente, ma tutti parliamo di tutto, protervi, incazzati col mondo, con il Padreterno e il vicino di casa; piangiamo il destino del ladro e ammazziamo lo sbirro che non ci protegge, corriamo in soccorso del panda e gettiamo i bambini nel cesso. Quanto sono diventati buoni, oggi, e amabili, tutti. Non come te, vecchio villano che ha sfruttato la terra e le bestie. Né come me che ho dentro il tuo sangue come marchio d’infamia. Ma intanto.., quanto t’ invidio, quanto vi invidio, voi vecchi dell’altro millennio seduti nel Walhalla a intrecciare corda e panieri.
Voi che non avevate tempo e mezzi per andare a caccia, e cacciavate, né soldi per campare, e campavate, né scuola per sapere, e sapevate. Era un mondo lontano, che io non ho visto, ma amo, quando ne sento l’eco nella voce di tuo figlio, o accarezzo il manico d’una forca lucidato dalle tue mani, mentre respiro la pioggia e la zolla bagnata, e quando l’occhio d’una lepre incontra il mio lungo un filare di vigna. Venne l’età di mezzo, e di mio padre, che ha avuto l’impiego e l’automobile che tu non hai avuto, e una famiglia finita a puttane, e giornate di caccia, tante quante tu non hai visto, e adesso, pian piano, scivola lungo la strada che già è stata tua.
E infine c’è questo nipote; l’unico, fra tutti, a seguire il tuo solco. Io vado a caccia, nonno, più dite, più di tuo figlio, ma le fucilate moderne sono anelli d’una catena fragile, che basta l’idea per spezzare. Non cercherò di spiegarti, no. Due mondi ormai ti separano da me, dai miei giorni, e non capiresti. Le volpi a migliaia, e i conigli spariti. Non è una metafora; è tutto così, adesso, e tu, lo so, ci staresti male, come ci sto male io. Abbiamo nuovi bisogni da soddisfare, ma soddisfatti non siamo mai. Aspettiamo in continuazione miracoli che non arrivano, e non sappiamo neanche quali miracoli aspettare, e non ci accorgiamo più che il solo miracolo è quello di esserci.
L’aroi fanno pazzapaneddu, e poi si rimettono in ordine, allineate e coperte, noi no. Abbiamo rotto le righe, e non si sa più cosa fare. Io lavorerò, come te. Andrò a caccia, come papà. E farò la mia strada con sola compagna la terra, e la buona presenza del tuo nome, e del vivere semplice sceso con voi nella tomba. Il fresco improvviso di sera mi spinge al ritorno, ma lungo il cammino butto un occhio a una zolla lontana che mi sa di lepre; la zappa sulla spalla sembra tanto il fucile, e la zolla, lo sia o non lo sia, è proprio una lepre. E allora, leggero di vita, non mi resta nient’ altro da fare che aprire le ali e partire...
Luigi Gallo
Concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore"