Era la settimana di Natale di diversi anni fa. Ugo, scultore di stame per il cimitero e vecchio compagno di caccia, mi propose di andare sul lago, a folaghe, con il barchino di Mariano.
Quella mattina, nell’aria gelida e cristallina, la superficie nera del lago appariva silenziosa e immota: solo leggere increspature lambivano appena i giunchi inghirlandati di ghiaccio. Il cielo era un manto oscuro su cui sembrava avessero sparato salve di schioppettate dai cui buchi trasparivano miriadi di stelle lucenti.
Mariano ci aspettava alla capanna di pesca, nell’ansa al di là di uno sperone roccioso che si spingeva nell’acqua come un unghione preistorico. Il fuoco era già acceso e ci scaldammo prendendo il caffè bollente aromatizzato con la grappa fatta in casa. Fuori era ancora notte: parlammo di animali d’acqua, di passo, di vecchi compagni di caccia, di “padelle” famose. Uscimmo nel buio col fiato fumoso misto a quello delle sigarette. All’orizzonte dalla parte di levante, appena sopra la cresta dei monti, si cominciava ad intravvedere un lieve barlume di luce. Sguazzammo fino al barchino, che era coperto, ad arco, con fasci di canne palustri per mimetizzarlo. L’eco del lago portava fino a noi il cicaleccio del branco delle folaghe al largo, invisibili, nere sul nero.
Prendemmo posto a tentoni: Ugo si mise i fucili di traverso sulle ginocchia, a poppa, e Mariano mi indicò di portarmi a prua. Accese un fiammifero riparando la fiamma con la mano, e tirò via una incerata. Vidi allora una vecchia spingarda col supporto fissato a un sostegno sull’impiantito e con l’affusto sporgente per la quasi totalità oltre la prua.
Sempre in silenzio, apri una cassetta di lamiera che stava li vicino e ne tirò fuori una grossa cartuccia di cartone che infilò nella culatta, forzandola con un mazzuolo di legno per farcela entrare, dato che l’umidità l’aveva gonfiata deformandola. Chiuse la culatta e sottovoce mi spiegò che quel tipo di cartuccia non si trovava più in commercio, per cui lui se le ricaricava da sé con polvere nera. Mi raccomandò che dovevo mirare per prendere il branco d’infilata e tirare il grilletto solo quando me lo avesse ordinato. Sapeva lui quando era il momento giusto per la distanza. Piano piano cominciava a far chiaro, le rive tornavano ai loro contorni ed il lago prendeva un po’ di colore. Mariano sedette a poppa, manovrando lento il remo come fosse un lungo timone e il barchino, sfiorando le cannucce tutt’intorno, scivolò al largo puntando verso la massa nera delle folaghe. Il chiacchierio si faceva man mano più distinto; ora di lontano si vedevano le folaghe muoversi, rincorrersi, quasi tumultuando.
Il barchino sembrava un grosso ammasso di canne galleggianti ed avanzava lento, senza increspature sospette.
Io stavo inginocchiato dietro la spingarda, cercando di sfiorare la linea di mira; avevo i calzoni fradici di acqua gelida penetrata oltre il bordo degli stivali.
Dagli spazi tra le canne avanti a me vedevo le folaghe farsi sempre più vicine. Dalla riva lontana arrivavano ora i primi rumori della vita paesana, che quasi infastidivano quale turbativa di quella quiete irreale. Adesso erano veramente vicine, ed io avevo paura che si allarmassero allontanandosi. Ma Mariano era pratico di quel tipo di caccia, come vecchio uomo di lago.
Tra le fessure delle canne, le distanze mi apparivano alterate, così come quando si sta al capanno ai tordi davanti ad un’antica quercia spoglia.
Ormai era questione di secondi: vedevo il branco proprio vicino e mirai più accuratamente per prenderlo d’ infilata.
“Adesso!”. Tirai il grilletto. Ci fu uno scoppio strano, squadrato: la spingarda sputò dalla culatta, apertasi, una vampata di fumo nero e denso, e davanti al barchino, a un paio di metri, si levò una colonna d’acqua dove s’era infilata la botta.
Per un soffio, la culatta sollevandosi non mi aveva colpito sotto il mento portandomi via la faccia. Il lago tumultuava per il branco delle folaghe che battevano l’acqua per levarsi in volo: il cielo si fece nero per la gran moltitudine di animali.
Ugo e Mariano non fecero neppure l’atto di alzare i fucili; io mi ero voltato e loro mi guardavano in faccia, spaventati e stupiti. Poi, di colpo scoppiarono a ridere. Non capivo: allora Ugo, sempre ridendo, mi passò un dito sulla faccia e me lo mostrò nero di fuliggine. Dovevo sembrare uno spazzacamino!
La tensione pian piano si allentò e accendemmo le sigarette. Adesso il lago era uno scrigno di luce. Ugo ricominciò a ridere: ”Siamo venuti a caccia o a pesca?” e fece cenno a Mariano di accostare: due grosse tinche, affiorate, si dimenavano lievemente con la spina centrale rotta sott’acqua, dallo spostamento per il colpo della spingarda.
Nel capanno poi Mariano preparò con le tinche una saporita e piccante zuppa di pesce, da quelle parti chiamata “sbroscia”; noi avevano portato vino e salsicce. Non mi permisero assolutamente di lavarmi la faccia. E la spingarda, la cui cartuccia per l’umidità aveva fatto “mina” e l’aveva spaccata, si trova ancora nel mio giardino, per la gioia dei bambini che ogni tanto vengono a trovarmi.
Sergio Maria Grossi
concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore".