Non sono un cacciatore e lo dico sul serio. E' un'arte lunga e nobile, la caccia; e sono un distrattissimo uomo che qualche volta va a caccia senza munizioni, o va pensando non sempre alle cutrettole e capinere. Leggo o scrivo nelle ore quando i cittadini dormono; sopraggiunte le altre, quelle di quando il sole non scotta troppo e il buio è lontano ancora, le ore dai colori piani, senza le soverchie ombre, prendo, - staccato il fucile – e sorto di casa con Basco e con Pirro, i due cani, e vado lontano.Pirro e Basco sono due cani bravi, cioè sprecati per un cacciatore come me.
Cerco di fare meno passi che posso per le strade maestre, imbocco, anzi, qui a due passi, il sentiero del Vincio, che scoscende tra potenti querce: entro in una galleria di acacie, dove, in altri mesi, l'usignolo tesse rossi voli controsole. Faccio altre strade, altri viottoli. Incontro qualche uomo che attende a rustiche faccende. Vado dove s'incontra il silenzio. Per canneti, granturcheti, vigne, arrivo ai grandi prati di saggina, erba bella; mi ci sdraio, mi ci rotolo, se è fresca, o mi ci stendo col libro sotto gli occhi; mentre Pirro e Basco, cercano i quagliardi per conto loro. Non sono il cacciatore, ma è nell'erba di saggina che le quaglie, venute dal mare tra l'aprile e il maggio, si fermano a fare l'amore e il nido. E qui nascono i quagliardi senza essere schiacciati dai piedi larghi dei contadini.
Sono, invece, cacciatori quelli che vanno col fucile non a bacchetta e polvere nera di contrabbando come vi vado io. Essi hanno fucile Darne di St. Etienne: asta brevettata che non si stacca dalla canna con lo smontaggio dell'arma, mentre bascula e guardamano formano un sol pezzo di acciaio: i ramponi delle canne forgiati in un sol pezzo e, l'estrattore, è di perfetto funzionamento. Invece il mio fucilaccio è a bacchetta, avancarica, e stoppa e carta. La stoppa si bagna con un po' di saliva. Lo comprai in una delle ineffabili svendite giudiziarie di armi sequestrate.
E ho si, passione per la caccia, ma è a momenti. Sono, direi, un cacciatore di quelli rari che non tornano a casa mortificati perchè col carniere vuoto: né di quelli che stanno al capanno con pazienza da romiti, in celle scavate nel tufo, o gli altri che, per esempio, alle quaglie tendono reti, rizzano richiami in mezzo al campo o lungo i margini dispongono reti sottili a tre fili, mentre la nassa, in fondo, verso il sole, attende, al varco, le quaglie amorose ed innocenti.
Io, invece, chissà a quale diavolo penso, sdraiato sul campo di saggina. Penso, poniamo il caso, ai filosofi degli atti, e a quelli moderni, delle sole parole. Gli antichi davano una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un'azione al pensiero; laddove, nei moderni, il pensiero resta cosa morta e non ha veruna o poca infuenza sullo esterno, cioè non produce nulla nello esteriore.
Quest'osservazioni le sviluppo andando pei campi; le penso tre volte, in grande serenità; le connetto con le altre, le lego tra i miei vitali pensieri. Il pensiero che regge al confronto con la serena natura degli alberi e del cielo è di buona sostanza. Oppure argomento, fra me e me, di religioni, o di caste: sofisti, agricoltori, bifolchi, operai, negozianti, militari, inquisitori, con la settima casta che era quella degli intelligenti puri, nelle antichissime dinastie indiane; casta che però non ha mai attecchito fra gli uomini, inquantochè fra essi attecchisce soltanto la brutalità della forza.
Cose men gravi penso in altri momenti, anzi penso alle ariette: ariette di quelle dipinte nelle maioliche rustiche, napoletane, del settecento. O quando, il pensiero stesso si fa peso, è allora che la mia anima si apre intera alla natura. Si carica del di lei bene come una pila. E' una celeste corrente di beatitudine che entra in me. Intanto cammino col fucile a tracolla.
Cammino pei margini dei boschi, al sole. Entro, per ombre, dove il sentiero è stretto, e le fronde e i rami son talmente intrigati da non potervi passare e si stenta, e si direbbe si pena, non fosse di nostra elezione, nostro piacere.
Ma, se questo bosco di ontani, e prossimo al fiume sorte la beccaccia, allora mi sveglio dai sogni, e li abbandono: e “Basco e Pirro”! Grido, chiamo, fischiando: poi, col fiato sospeso, piano piano, con pazienza, mi metto a frugare per rovi. La beccaccia può fare anche lunghi voli; ma, se è di posto, ne fa brevi. Dicono la beccaccia animale stupido; ma è furba. Furba furbissima e si nasconde che non si muove a passarvi, accanto di tre passi. Basco e Pirro, ai quali, non io, ma Sant'Uberto ha insegnato il modo del bel comportarsi, con pazienza e con lena, sono essi che cercano.
Intorno ai miei passi cercano, frugano, alzano il naso al vento, ritrovano, il volo, dall'odore, e, in traccia, si fanno irrequieti, sfrogiano per terra: con quel gusto sfrogiano! : amano veramente e solo la caccia, essi!
All'Ave Maria, riprendo la strada di casa, la più cara di tutte, dopo una giornata di strada. Con uno stelo in bocca, le mani una alla canna e l'altra alla cassa del fucile, eccomi per righe di bianco, in mezzo a forme già spente. Sono righe di bianco, dove la luna disegna la lunga ombra del cacciatore. Si ascolta l'altalena dei grilli, la nenia degli assioli.
Pensieri vaghi; desiderio, ho detto, di toccare presto lo stipite della porta di casa.
(Tratto dal libro L'Orso di Luigi Bartolini, ed. Vallecchi, 1933)