No, questa non è la storia del primo viaggio di caccia in Oriente. E’ la storia di una cagnetta, una piccola grande Dachsbracke, di nome appunto Asia. Tutto inizia alcuni anni or sono, davanti al camino della casa di caccia della mia squadra. Si è di nuovo verificato uno degli eventi più brutti che possono capitare ad un cacciatore di ungulati; bestia colpita, tracce di sangue evidenti, e scomparsa.
Il cinghiale ferito và a morire nel fitto. Quando si dice “fitto” in Sardegna, vuol dire inferno. Chi non ha mai cacciato nell’alta Gallura, non me ne vogliano i cacciatori delle altre regioni, non sa cosa vuol dire la parola “impraticabile”. Silva, si dice in sardo. Selva. Come quella dantesca, oscura e impenetrabile, ostile.
Andiamo in silva sta per: andiamo a caccia di cinghiali. Che poi, se la guardi da una strada, magari d’estate mentre vai verso quel mare cristallino, neanche ti sembra così terribile. Sembra un tappeto verde di cespugli, da noi non c’è il bosco ad alto fusto dell’appennino o della fascia prealpina.
Quando ci sei dentro, capisci. Che quei cespuglietti sono altri 3-4 metri e sono aggrovigliati l’uno all’altro, che quello che sembrava un piano o un declivio dolce, sotto quella coperta verde è martoriato da rocce, dirupi, fossi, torrenti. Che se non sai dove passare, o soltanto non sei stato in quella selva da più di un anno, rischi di non riuscire ad andare più né avanti né indietro.
Noi non abbiamo le altane, sarebbero inutili. Il cinghiale si aspetta al passaggio, bisogna indovinarne il sopraggiungere dai rami spezzati, dal fruscio dei cespugli.
Si intravede spesso per un metro, a volte solo in un passaggio scavato da lui nella vegetazione o nel punto diroccato di un muro a secco. Non c’è tempo per mirare accuratamente, devi essere uno stoccatore, avere l’istinto del colpo a segno, più che costruirlo. Da noi è inutile, anzi deleteria l’ottica.
Ed il nostro selvatico, “sus scrofa meridionalis” è selvatico davvero, piccolo, velocissimo, con zanne ipertrofiche rispetto alla mole e con un’astuzia diabolica. E con tanta, tanta resistenza al piombo.
Era già successo, quell’anno. Un grosso solengo ferito, allontanato nel fitto e dato per perso da tutti noi, tranne dal cacciatore che l’aveva colpito, che con caparbietà, il mattino seguente, l’aveva ritrovato grazie all’aiuto…del Dobermann di suo figlio!
I nostri segugi sono grandi corridori, instancabili scovatori, ma “snobbano” il selvatico morto.
Il vecchio cane da sangue, Pelé, un piccolo segugioide dagli incerti e promiscui natali, il “saggio”, tanto da essere ammesso, unico tra tutti i cani della muta, al focolare del padre del nostro capocaccia (a sua volta ex gran cacciatore) e da lui soprannominato “Pertini”…Ormai Pelè-Pertini da tanti anni cerca le tracce nel paradiso dei cani.
Prendo una decisione: regalerò io alla squadra un nuovo cane da sangue. La ricerca non è facile. Alla fine, visito un allevamento in alta Toscana. Sono molto Sardo, diffidente in fatto di cani e caccia; arrivo all’improvviso all’allevamento, per dare un’occhiata “dal vivo”. La prima impressione non è estremamente confortante, per i miei gusti c’è parecchio disordine e sporcizia.
Ma i cani sono tutti in buona salute, vispi e ricettivi. Arriva il titolare e capisco. Non è trascuratezza, è ciò che può fare un uomo solo ed anziano, troppo onesto per speculare sui suoi cani, sui quali però riversa a manate quello che troppo spesso negli allevamenti razionali ed asettici manca: uno sconfinato amore per tutti i suoi quadrupedi. E questo amore è ampiamente ricambiato dai cani.
Fa uscire tutta la cucciolata. I cuccioli fanno i cuccioli, ossia cazzeggiano, fanno la lotta fra di loro, rompono le scatole alla madre, ai gatti di cascina, fanno le feste all’allevatore ed all’ospite.Una cucciola, non la più grande né la più bella, si stacca dal gruppo. Si allontana, segue un fosso di irrigazione, e dopo un po’ torna con una piuma di fagiano in bocca. Non guaisce, non latra. Mi viene vicino, con quella penna in bocca, e mi fissa con degli occhi d’ambra, occhi vivi ed intelligenti, profondi. L’accarezzo, la prendo in braccio… “si chiama Asia, veramente volevamo tenerla noi…”
Non se ne parla, mi sono innamorato, voglio quella. Si parla con l’allevatore, con calma,da cacciatore a cacciatore, come si faceva anticamente, senza la fretta di concludere un affare; è questa la mossa giusta, l’allevatore si convince, mi cede la cucciola anche se accompagna il tutto con infinite raccomandazioni, si vede che ci siamo piaciuti.
Per Asia è una giornata da incubo. Quasi cinquecento chilometri di automobile. Una breve sosta a Roma, a casa mia, per sgranchire le zampette. Accetta poco cibo, beve per fortuna tanta acqua. Giochiamo per un bel pezzo, poi si accuccia e chiude gli occhi. Forse sogna i fratellini e la mamma, scodinzola nel sonno.
E poi il trasportino, il treno fino all’aereoporto, l’attesa ed il volo… Asia è eccezionale, non si lamenta, guarda tutte le novità con quei suoi occhi profondi, che sembra che pesino ogni cosa.
E non è finita: all’arrivo in Sardegna l’aspettano altri cento chilometri in fuoristrada, per raggiungere il canile della nostra squadra. L’appuntamento è con il bracchiere che l’avrà in consegna.
Bruno. Un nome da orso come il suo carattere, lineamenti tagliati nel granito della Gallura, gambe lunghe abituate a seguire la muta, occhi da ragazzo eterno. Difficile, quasi impossibile tirargli fuori più di dieci parole in una conversazione. Ma un dono, unadote naturale per tirar su bene i cani da cinghiale. Sono diversi i bracchieri nella mia squadra, tutti bravi e capaci. Ma Bruno ha una marcia in più. Ed i suoi cani pure.
Gli consegno Asia con i suoi documenti, i certificati di vaccinazione. La prende in mano e dice solo “bella cagnetta”, lo dice in gallurese, come usiamo in squadra. Ma ha già preparato la cuccia ed una ciotola di macinato speciale per darle il benvenuto.
Certo, il nostro canile è bello, ampio, razionale e pulito. Ma mi aspetto lo stesso qualche scena di paura, o di disperazione; macchè, fa il giro di tutto il canile, tutti i segugi la salutano latrando: e lei, finito il giro, si siede in mezzo al corridoio e risponde ai latrati scodinzolando.
Il tempo passa velocemente, una stagione di caccia è finita ed un’altra è iniziata.
Ho visto crescere quella specie di salsicciotto con le orecchie; oddio, crescere per un Dachs è una parola grossa… Una volta, a sei mesi di età, mi ha colpito per un fatto successo al canile. Bruno distribuiva le razioni ed ispezionava le cucce; lei lo seguiva adorante. Un grosso Ariegeois tricolore ha fatto non uno ma due errori: prima ha smusato Bruno, poi si è avvicinato ad annusare la sua cuccia: è diventata una belva, con il pelo dritto ha costretto il cagnone in un angolo e lo mordeva senza pietà alle zampe ed al sedere. Bruno ha sorriso: “hai visto che caratterino?”.
E’ la seconda metà della stagione.Adesso il freddo, nei monti di Aglientu, si fa sentire. La temperatura a dire il vero non sarebbe nemmeno proibitiva, 2 o 3 gradi sotto lo zero; quello che rende il freddo quasi insopportabile è il vento, il maestrale che dopo aver preso la rincorsa dal golfo del Leone scaraventa la sua forza sulla costa del nord Sardegna.
Ma sono queste le cacce più belle. I cinghiali, dopo essersi rimpinzati di bacche di lentischio durante l’autunno, nelle zone più vicine alla costa, ora si sono ammucchiati nel fitto dei boschi e dei canaloni per proteggersi dal vento e passare alla dieta di ghiande. Sono grassi, forti e furbi.
La braccata di Monte Rosso è enorme, più di trecento ettari. Siamo in posta dalle 8 del mattino, sappiamo bene (almeno i “vecchi” della squadra) che staremo lì almeno fino alle 3 del pomeriggio. E’ dura, ma ne vale la pena. La battuta ci ha sempre dato buoni risultati, diciamo da 18 fino a 27 bestie a carniere.
Mi è stata assegnata una posta al margine di una fascia, davanti ad un fitto. La posta più su della mia, all’angolo tra la fascia ed un sentierino, è toccata ad un ragazzo al suo primo anno in squadra. Lui non se ne è accorto, ma è una posta eccellente, una sorta di passaggio obbligato. Gi faccio vedere le possibili traiettorie di uscita del selvatico e soprattutto che alle sue spalle, nascosto sotto un pino, c’è uno splendido insoglio, segno che i suini apprezzano la zona.
Passa un po’ di tempo, sono le 9 e si sentono le prime canizze, in lontananza. Poi, le prime fucilate alle poste: speriamo bene… Qui ancora è tutto calmo, ma accidenti, prima fucilata in zona, tre poste più su. Conosco il cacciatore, è abbastanza affidabile. Come non detto. Il bestemmione in sardo stretto mi rivela la padella.
Si son fatte quasi le 11, una pioggerellina gelida ed insistente stende un leggero velo di disagio sulle poste. Sperando in un parziale riparo, sposto di un metro più indietro, sotto un perastro, il treppiede con il fodero del fucile, lo zaino ed il giaccone. Anche se piovicchia, preferisco tenere solo il gilet rosso, non voglio sbagliare l’imbracciata.
La canizza sembra lontana, ma si sente rumore di frasca e rami spezzati. E’ qui, davanti a noi. Si avvicina alla prima posta del sentierino, torna indietro, poi alla seconda, stessa storia. Anche se siamo in favore di vento, evidentemente percepisce qualcosa.
Salta la posta d’angolo, poi sento il rumore di frasche smosse più vicino. Mi preparo al tiro. Sonotrent’anni che caccio, ma in quei momenti l’adrenalina è sempre a mille.
Al limite del fitto ci sono dei cespugli di Erba di Santa Maria, una sorta di erba scopa o saggina, fitta come la savana anche se bassa. Intravedo un grugno; ecco, ora vedo bene un orecchio. Si è fermata un attimo: non è che ha capito, ed ora fa dietrofront come alle altre poste? Devo provarci. Calcolo il tiro facendo riferimento all’orecchio. Parte il colpo, la bestia fa un balzo con una mezza torsione su sé stessa…colpita! Ma non si ferma, parte alla massima velocità, mi sfila davanti in obliquo e vedo distintamente una striscia di sangue…accidenti, sul fianco, tra costato e pancia. Mortale, ma che non arresta il selvatico.
E difatti, sfila dietro la posta del novellino (che, a suo merito, ha la prontezza di riflessi di girarsi e buttargli una fucilata non mirata che viene arrestata dal torpore del fango del sentiero, e si butta nel fitto. E lì si ferma, per riprendersi. Grido al ragazzo: “corri, tirale una fucilata!” “no, no, tranquillo Dok, si è fermata” “…zzo! Non ti fidare, vai e sparala!”.
Da una parte, lo capisco. Sente ancora la canizza che si avvicina, e pensa che possa arrivare alle poste qualche altro cinghiale. Non sa che questi astuti ungulati quando decidono di abbandonare la lestra si prendono sempre un bel vantaggio sui cani.
Si affacciano i primi segugi, e passiamo un bel po’ di tempo a cacciarli e rimandarli indietro. Fargli passare la linea della poste, da noi, potrebbe significare ritrovarli il giovedì successivo. O non trovarli affatto.
Finalmente il ragazzo si decide e và a controllare il macchione dove si era fermata la scrofona ferita. Gira in lungo e in largo, poi mi dice sconsolato “non la trovo più…eppure prima la vedevo”. E certo, penso tra me e me, che credi, che stia lì a dirti benvenuto? Passato lo shock ha ripreso la sua strada….mi sà che ho aperto un ristorante di cinghiale per tutte le volpi del circondario (che non sono poche).
Passa nella fascia Bruno, con alcuni dei suoi segugi al guinzaglio, stà facendo la solita, faticosa operazione di recupero cani. “Porta la cagnetta! Ho ferito una scrofa, è scesa per di là”. Annuisce, e si allontana.
Passa il capoposta, amico di vecchia data, con il glorioso piccolo fuoristrada adibito al recupero dei cinghiali abbattuti. Forse intuisce qualcosa dalla mia espressione, si ferma e mi dice ridacchiando “e tu? Hai sparato?” gli spiego brevemente l’accaduto, lui continua a ridacchiare e a titolo di consolazione mi dice, “pazienza, se n’è andata!”. Lo strozzerei.
Dopo una mezz’oretta arriva Bruno con Asia al guinzaglio. Gli indico il punto in cui ho colpito la bestia, lui fa annusare la Dachs. Asia “telaia” un po’ in giro, poi si dirige decisa seguendo il tragitto che ho visto fare al cinghiale: buon segno.
Arrivato al margine del macchione, è troppo intricato per seguire la cagnetta con il guinzaglio. Bruno la sgancia e sia lui che io iniziamo ad incitarla “dai Asia! Cerca! Ceeerca! Cerca, bella! Prendilo!”.
Asia esplora prima il centro della macchia, poi i bordi, prima uno poi l’altro, io penso che è giovane, troppo giovane…non faccio in tempo a finire di formulare questo pensiero, cambia completamente atteggiamento, mette il tartufo in terra e la codona in alto e parte decisa. Seguendo i suoi recettori, nell’intrico verde per noi umani proibitivo.
I minuti passano. Mi viene in mente che il cinghiale potrebbe essere ancora vivo, le scrofe ferite sono anche più pericolose dei solenghi, quelli zannano e smusano, queste mordono con decisione e lacerano senza mollare la presa.
Erica arborea. Spina di Cristo. Unghia di gatto.Ma il nome sardo, “pruncifunu” è più onomatopeico. Rende l’idea di quei rami che ti afferrano e ti lacerano, i vestiti e le carni a noi, la pelle e le zampe ai cani.
Sento dei guaiti, ma non sono spaventati come di cane attaccato dal selvatico, sono più che altro… come dire, di disappunto, se un segugio può provare disappunto. Mi rendo conto che Asia sta cercando un difficile passaggio e si ferisce nel tentativo.
Passa ancora un po’ di tempo, sto per richiamarla e sento un latrato. Forte, deciso, di vittoria! Non so come raggiungere quel suono, che in quel momento mi sembra più melodioso di un acuto della Callas. Io, essere umano con i sensi limitati, non capisco come e dove posso passare.
E lei ricompare. Ha il pelo strinato, ma scodinzola, mi guarda un attimo, e poi scompare di nuovo. E di nuovo, poco dopo, quel latrato a fermo. E allora mi butto, al diavolo i graffi, il cappello mi viene scippato dei rami spinosi, lo recupero, poi per poco non perdo gli occhiali (anche questo, sono pure occhialuto, accidenti). E Asia ricompare, scodinzola e scompare di nuovo… Ho capito! Fa il “telegrafo”, mi hanno raccontato di questa caratteristica dei Dachs, ma non ci credevo. E’ lei che mi sta portando sul pezzo.
C’è un minuscolo spiazzo, poco più di un metro, torno torno alle radici di un ginepro nano. C’è la scrofa, morta. C’è Asia accucciata sopra il cinghiale che ha ancora solo la forza di un’ultima scodinzolata, ma non ha più voce, ha i cuscinetti delle zampette spaccati e sanguinanti, un orecchio graffiato, le mancano ciuffi di pelo dai fianchi… Arriva un Grand Bleu dal basso, da dietro la battuta; forse era riuscito a superare le poste.
Morde gagliardamente il collo del cinghiale. Lo caccio in malo modo “Pussa via! Tu non lo meriti”.
Ho un panino nella tasca della cacciatora. Lo faccio in piccoli pezzi, e li porgo ad Asia. Poi prendo un fazzoletto e le pulisco le zampe e l’orecchio. E sento dentro qualcosa, qualcosa che a volte non si sente neanche per gli esseri umani.
Verranno altre stagioni ed altre cacce. Ma ora sono più tranquillo, ed anche i miei compagni di squadra. Sappiamo che finchè ci sarà Asia, zampe corte e cuore grandissimo, nessun cinghiale colpito mancherà all’appello….
Questa storia è di fantasia. Oppure no, decidete voi. Ogni riferimento a fatti e personaggi reali non è affatto casuale.
Miro Simonetti (DoktorCash)