Passano, sopra la valle grande, le palombe. Schieretta che fruscia per l'aria leggera con ali di nero di seta, e vanno a convegno, verso sera, per una delle vie del mare al bosco della Santa casa. Volano quiete, sicure di raggiungere Numana, o Sirolo, prima dell'Ave: per poi cercare, a notte, all'aria freschissima, sotto la luna, il mare della Dalmazia.
Mirai giusto al segno della palomba di destra. A cuore freddo mirai. Il tiro era forzato; c'era poca speranza di arrivare a colpire. Partì la fucilata. La palomba per un attimo parve rimanere dietro alle altre. Le altre non cambiarono volo a causa della compagna ferita: la quale barcollò per un attimo; un altro attimo diagonaleggiò sulle ali; per un attimo incominciò a cadere. Cadde a precipizio con le ali scombussolate. Piombò sul solco del trifoglio fresco.
Caduta a terra stava con le ali aperte e larghe. Sembrava una fanciulla vestita dalla testa ai piedi. La palomba fanciulla non era morta: dolorava, sussultava: ora s'appoggiava col corpo su un'ala, ora sull'altra. Immagine che mi è rimasta in mente, e potrei disegnarla con quell'efficacia che hanno i disegni della realtà tramutata in visione.
Quiete erano, intorno alle ali, le erbe del prato, le foglie ovali del trifoglio. Le ali erano variegate, con striscie nere. Quando andai per raccoglierla, balzellava di solco in solco, stillando sangue su qualche fiore. La fanciulla - colomba non moriva. Ma io pensavo non alla sua morte, bensì fieramente di portarmela a casa, mostrandola per istrada ai contadini. Avera fra mano, tenerla in pugno pel collo, e con l'altra mano palpeggiarle il petto, le ali, lisciarla per le ali, facendo, i chilometri della strada, insolitamente contento.
Di tali piaceri primitivi ho fatto pasto tutto il tempo ch'è durata, a marzo, la caccia. Ho uccise allodole al volo, e la beccaccia pesante, dal volo diritto, allorchè si allontana dal macchione. Ho ucciso tordi già cari a Pietro Aretino e a Tiziano Vecellio, con tutta la compagnia beata, delle meretrici di Rialto. Ho ammazzato il pettirosso, breve per le siepi, e che invece di fuggire balzella intorno al cacciatore e lo costringe a sparare. Diresti il piccino abbia voglia di morire. E mentre gli si tira, scuote le ali e ciancia la più allegra delle canzoni.
Ammazzai, l'ultimo giorno di caccia, l'upupa uccello di primavera e non dei cimiteri come ne disse il Foscolo. L'upupa non si vede, per le rive dei torrenti, - dove ha solitaria dimora - finchè primavera non è pienamente celeste. Ai grandi giorni del fresco sereno l'upupa vola come una strana signora con il corsetto colore arancio e una mantelletta bianca e nera.
Soltanto il merlo, nero e fantastico, io non sono mai riuscito ad uccidere; egli sta bene per le selve grandi, o per le rive le più profonde e belle; lazzeggia sempre. Sembra l'abbia con ciascuno degli altri uccelli o coi radi villani che passano intorno al fosso, al confine del campo. Ma non l'ha con nessuno, essendo troppo contento del suo stare, come monaco gaudente, in solitudine grande. Stordisce, mentre scappa, il cacciatore, con garrulo ed altro motteggiare. E' difficile ammazzarlo a volo. M'è più difficile ammazzare un merlo che scrivere un pamphlet contro la letteratura.
Anzi, accadeva che, durante la caccia, mi riposassi a sedere a pié d'un albero. Il riposo era beato anche sul duro. La quercia copriva, con la sua ombra, da un capo all'altro il ruscello. Allora facevo il conto dei miei nemici: li vedevo piccoli, neri, fuligginosi, pallidi, malati; all'ombra dei caffè, su divani che segnano la stampa del sedere degli ospiti sempiterni. Gente al caffè, in ogni stagione; e non distingue primavera da autunno. Maturano la stessa rogna d'inverno e d'estate. Non sanno più le strade di campagna o il riposo in mezzo al dolce selvatico. Né, se in selva venissero, vi starebbero senza la stonatura dei loro modi di farisei letterati. Io invece considero l'attività di un artista e d'un poeta non dal numero di poesie o dei quadri, ma dal modo della sua vita. Né c'è bisogno di scrivere libri quando si vive al modo della poesia.
E dicevo, tra me, ascoltando, di me, quella parte che non è del cacciatore di palombe o di beccaccini, l'altra che distingue i molti fanatici cacciatori dai meno, e mi fa più contento del riposo sotto la quercia che dello ammazzare i variopinti uccelli: il fiavolo non condede ai nemici miei la benignità di capirmi giacchè essi mi capiscono meno che a mezza via. Faccia, il diavolo, essi comprendano la ragione del mio sorriso limpido, sopra tutte le cose.
Intanto giungeva la notte. Triangoleggiavano, per le strade maestre, e quelle dei boschi, e lontani, sottili, diritti a valle, i lumi delle automobili. Frammenti di paesaggio, scenari all'improvviso tornati chiari nel fitto, dalle tenebre pur esse gradite, verso le nove ore di notte.
Vecchi cani di campagna, vecchissime stelle. Usata strada. Svolti a memoria. Passi affaticati, alla militare. Il cane avanti, io dietro.
A casa, da bere pronto.
Buttare, con aria bravaccia,
la beccaccia,
sul tavolo di cucina.
(Tratto dal libro L'Orso di Luigi Bartolini, ed. Vallecchi, 1933)