Me le ricordo bene quelle domeniche di fine estate, che coincidevano con l’apertura della caccia.
Ai primi di settembre, di solito, tornavo a Parma dai nonni e restavo da loro per una settimana, prima dell’inizio della scuola: sette giorni in cui riassaporavo ritmi, gusti, umori, sapori diversi e mi riappropriavo, allora inconsciamente, delle mie radici, ormai trasferite altrove.
L’estate era quasi alla fine, se ne avvertivano, inconfondibili, i sintomi: le prime nebbioline, le giornate più corte, i pullover infilati verso sera in tutta fretta, dopo qualche improvviso brivido di freddo.
E con la fine dell’estate arrivava, puntuale, l’apertura della caccia. Mio nonno era stato guardiacaccia ed aveva poi continuato come cacciatore a girare l’Appennino parmense con la doppietta a tracolla, spinto da una passione vera, semplice (come semplice era lui) e nello stesso tempo implacabile, che lo ha accompagnato fino quasi alla fine della sua lunga vita, allorché, ormai vecchio e vinto dall’inarrestabile trascorrere del tempo, pur di non mancare all’annuale appuntamento si accontentava di accodarsi ad altri cacciatori e di starsene seduto da qualche parte a sentire gli spari delle doppiette, a vedere i cani correre qua e là alla ricerca della preda abbattuta, respirando un’atmosfera che credo fosse per lui vitale come l’aria, di cui non si può fare a meno.
Ad un certo punto, a vecchiaia ormai avanzata, per non privarlo di tale gioia, sua figlia, cioè mia zia, aveva addirittura ottenuto la licenza di caccia e con lui si era messa a percorrere i sentieri delle vicine montagne, accompagnandolo nei luoghi che lo avevano visto diretto ed appassionato protagonista al tempo del suo vigore, quando con passo da montanaro esperto e con la forza della passione inseguiva le prede fin nei più scoscesi ed impossibili anfratti.
Capivo che la stagione venatoria era alle porte, perché captavo e verificavo una generale eccitazione, ogni giorno più evidente, tra coloro che abitualmente frequentavano la casa dei nonni:
all’interno e nel giardino, dove erano tenuti i cani, c’era un continuo via vai di “casadòr “(cacciatori), amici del nonno, che si scambiavano informazioni e si accordavano e decidevano la meta. “Il romano “(un arcigno docente universitario), Maggio (un bancario magro e stempiato), il serioso Dr. Reperti, i Terzi, padre e figlio, ed altri venivano a casa del nonno e passavano il tempo, eccitati come bambini, immersi in un’atmosfera di totale condivisione, a discutere, commentare, fare programmi, ripetere episodi vissuti e chissà quante volte già ricordati. I cani stessi, coprotagonisti essenziali di quel rito sacro ed immutabile, erano a loro volta irrequieti, avendo già annusato l’importanza del momento, che di lì a poco avrebbero vissuto, evidentemente consci del proprio molo.
Kira, la pointer bianca e nera del nonno, accertava con occhi pazienti le sue carezze amorevoli, avida di riceverne presto altre, ben più gratificanti, non appena avesse svolto con la solita bravura il suo dovere.
E finalmente arrivava il gran giorno.
Era ancora buio quando, nella mia stanza all’ultimo piano della villetta dei nonni, venivo puntualmente svegliata dai rumori provenienti dal piano sottostante: sentivo passi pesanti che andavano e venivano, cani che abbaiavano, voci che si rincorrevano animatamente e la nonna che preparava qualcosa di caldo per tutti, partecipando alla generale euforia. Poi silenzio, fino all’ora in cui i “casadòr” tornavano, a volte insieme, a volte in gruppi sparsi. Tutti, sempre, al di là della più o meno rilevante quantità di capi abbattuti, desiderosi di raccontare e scherzare.
C’era chi descriveva la scena dell’individuazione della preda e del perfetto comportamento del cane, che l’aveva “puntata” restando immobile fino al momento dello sparo. Chi, invece, parlava del fagiano che gli era volato via “per tanto così “, nonostante la prontezza con cui aveva sparato. Chi, ancora, si vantava dell’ottimo bottino e della propria mira infallibile.
Così per un po’ continuavano le chiacchiere, i racconti, le descrizioni, le esagerazioni, mentre fagiani, lepri e qualche rara beccaccia venivano esposti con tracotante soddisfazione, come preziosi trofei, a volte addirittura platealmente sui cofani delle auto.
E leggevo, negli occhi azzurri e buoni del nonno, una soddisfazione ed una felicità tali, che diventavo io stessa partecipe della sua gioia.
Per tutta la settimana, poi, i “casadòr” si ritrovavano per altre discussioni ed altri commenti, fino alla domenica successiva, in cui il rito si ripeteva, identico, e così per tutto il periodo di apertura della caccia.
La mia vacanza a Parma alla fine terminava ed io partivo portando con me il ricordo della “parentesi venatoria” cui avevo assistito, che per anni ho poi avuto modo di ritrovare, e che ha lasciato in me belle sensazioni, che anche oggi provo quando penso al nonno, ai suoi amici, al loro smisurato amore per uno sport praticato con passione, correttezza e semplicità.
E proprio perché ho vissuto quei momenti, sia pure da semplice spettatrice, ed ho avuto modo di conoscerne i diretti protagonisti non riesco a condividere le critiche che oggi molti rivolgono all’arte venatoria. Ma se anche ci provassi, me lo impedirebbero comunque gli occhi azzurri del nonno, raggianti di felicità.
Daniela De Petris
concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore".