Il bosco era ammantato di neve, nel silenzio del cielo scolpito da stelle marzoline, appena percettibili fra le gelide nubi. La luna, di tanto in tanto faceva capolino e tra le ombre antelucane qualche impertinente rapace rientrava nel bosco, di poco scalfendo quel silenzio etereo. Poi da giù, nel fondovalle, si percepì il rombo affannoso dell'utilitaria che saliva incatenata. Rombo che si confondeva nella natura, fra le ombre delle querce imbiancate, nel nulla del tempo ancora notte.
Lei era lì, ignara di ogni possibile evento o destino, che dir si voglia; sì perchè anche le beccacce hanno un destino, che è il fine della loro esistenza. Era lì a tirar lombrichi, godersi il sicuro potere delle ombre, lontana da ogni pericolo. Poi il vento soffiava forte, portando con sé schizzi di neve che si stampavano sulle cortecce delle querce e lenti scendevano sotto i ceppi, a confondersi con la terra imbiancata.
Neve su neve. Quindi il vento taceva e il rombo sommesso del motore si faceva più percettibile. Chi poteva essere se non lui, l'uomo di sempre, il cacciatore antico che di notte, sognando silenzi e voli di beccacce, non aveva esitato ad affrontare ogni pericolo della strada, ogni possibile divieto di caccia, pur di salire, con la seicento e il vecchio pointer, sui colli della speranza dove si consumano i giorni della vita e della caccia.
E lei lo aveva capito, nell'istintività che madre natura le aveva iniettato, di generazione in generazione, nel suo essere selvatico. Ma anche questa volta era pronta alla lotta e a vincere l'ultima sfida, perchè fra le ombre del bosco senz'altro sarebbe apparso lui. E quella sulle ali, avrebbe guadagnato i segreti della sua terra di Finlandia, dove avrebbe nidificato. Non sarebbe stata più fuga da sette, come d'abitudine; ma volo di ritorno, lungo settantasettevoltesette. Così la strana vita dello scolapacide. Ora lo scuro fumava appena da levante, ma la notte era ancora imperiosa, e la neve ritornava a fioccare lentamente, a coprire l'ultimo filo d'erba, l'ultima foglia fradicia di ghianda, forse anche l'ultima speranza del cacciatore.
Qualche lombrico e poi, via! Era tempo di migrare per lei che, a marzo, s'era ancora attardata fra querce che le offrivano piaceri di sapori e visioni di sfarfalli e corteggiamenti. Intuiva anche di dover affrontare l'ultima sfida, tante ne aveva vinte contro setter e pointer. Maestra nell'intrigo delle emanazioni, nei finti voli e persino nel simularsi ferita o morta.
Rieccoli! L'uomo sbatte con forza lo sportello dell'auto, restio a chiudersi. Vi lascia l'amico pointer che schiaccia il muso sul vetro, non spiegandosi lo strano comportamento del padrone. Guaisce appena.
E lui lo redarguisce con un cenno di mano. Anche l'antica doppietta è riposta lì, nell'angolo del sedile. I primi passi sulla neve e gli stivali stentano a venir fuori. Si divincola, al limitare delle querce imbiancate.
E mentre in un attimo il vento rotola e poi sbuffa sul volto del cacciatore, la luna si fa strada in uno squarcio di cielo limpido, dopo essere stata nascosta fra le nubi. Poi l'ombra dell'uomo si leva appena su il becco per tirare il lombrico che con tanta fatica e maestria è riuscita a scavare o scovare. Ma l'evento la blocca. Sgrana gli occhi di velluto e rimane immobile, stretto lombrico nel basso becco, sicura di vincere ancora una volta. Perchè anche lei, come qualsiasi selvatico, non sempre deve soccombere.
L'ombra dell'uomo si fece lunga, avanzando e coprendola. Ma era solo, senz'arma e senza cane. Di poi altre due ombre avanzarono lente e decise, anch'esse senz'armi. Cosa succede! I guardiacaccia fissarono l'uomo cacciatore, da sempre conosciuto, esclamando “Interamente coperto di neve, divieto di caccia!”. E i tre parlottando, lasciarono la macchia per portarsi all'aperto. E qui, in un angolo di cielo, con l'aurora nascente e fredda del marzo gelido, videro la regina sulle ali, per le terre degli antichi amori. Aveva vinto l'ultima sfida!
Domenico Gadaleta