Che male ho fatto
per non svegliarmi col canto del gallo,
bere il latte della capra appena munto,
succhiare un uovo fresco dalla calda paglia,
tenere l’anta aperta con le chiavi appese e,
dissetarmi al secchio traboccante del pozzo natio.
Eppure,
ho sempre onorato le incombenze,
ho lavorato con entusiasmo e lena,
attaccamento alla famiglia mia,
suddito esclusivo del dovere.
Che cosa ho fatto
per scrutare come un pirata dal balcone la campagna e,
allucinare con la fantasia, colori, ombre, sfumature,
balsami e lezzi che hanno colorato la giovinezza mia.
Che male ho fatto
se il cuore mio l’ho fatto sempre a pezzi,
spartendolo ad amici, familiari e conoscenti,
lasciando per me soltanto la corteccia che,
ha tenuto in caldo il sentimento agreste.
Che male ho fatto
per non respirare più brezze montane,
senza dar sfogo all’espressione dei miei geni,
selezionati naturalmente per cacciare.
Che cosa ho fatto
per non vedere più il sole in faccia,
sentendo stillare goccia a goccia giornate piatte che sanno
di routine e non di caccia,
aprire e chiuder un portone udendo quel rumore di metallici pistoni.
Che cosa ho fatto di male
per essere confinato in un centro urbano,
ai piani alti sul corso principale.
Se questo è il progresso, io lo maledico
ed inveisco contro il destino infame che,
mi ha impedito
d’accudire ed amare un cane.
Umberto Clausi