Nel cuore del grande bosco viveva Francesco, don Ciccio per gli amici. Abitava una masseria inghiottita dal verde di querce secolari. Anima solitaria e cacciatore, amico soprattutto dei beccacciari e sempre disponibile al dialogo e ad elargire tanta saggezza naturale. Figura patriarcale d'uomo d'altri tempi. Si distingueva per la lunga barba bianca e folta, la pipa, i pantaloni alla cavallerizza e gli stivaloni di cuoio. Leggeva nel libro immenso della natura, fatto di foglie e colori, pioggia e vento, di silenzi e voci arcane e capiva i misteri del bosco, nell'alternarsi degli eventi del cielo e della terra, nel flusso delle migrazioni e all'arrivo dei selvatici. Dava insegnamenti soprattutto ai neofiti, perché conosceva le abitudini dei selvatici, dal tordo al colombaccio, dalla volpe al tasso, ma sapeva profondamente di lei, che nella sua terra se la faceva da regina, ospite svernante. Ne intuiva i misteriosi comportamenti, ritenendo non solo selvatico bello, ma istintivamente intelligente, con quell'astuzia congenita, in perenne lotta con l'uomo e il cane.
Oggi, nei ricordi del beccacciaro c'è lei, don Ciccio e l'altro, il grande maestro: suo padre e poi tanti cani, ma soprattutto Friz, il cane della giovinezza e delle primavere passate e perdute. Quella caccia si svolgeva in un paradiso naturale. Padre e figlio alla continua ricerca dello scolopacide. Qualche volta si accompagnava lui, don Ciccio.
Lei doveva esserci, negli angoli ambiti, al sicuro da pericoli e alla ricerca di sapidi lombrichi. E le intuizioni del maestro sortivano stoccate magistrali, a volte lasciate alla prorompente giovinezza del figlio, già neofita esperto alle dipendenze delle iniziazioni del genitore. Fra quei querceti, le albe e i tramonti come pure i mezzodì e le controre non erano segnati da un comune orologio, ma dalle ansie e dai palpiti dei cacciatori, dai battiti accellerati dei loro cuori, dagli improvvisi frulli della regina, ed infine dalla stoccata che rompeva il silenzio, ma breve. Perché subito la quiete si ricomponeva, mentre si percepiva il continuo scampanellio del cane. Poi di nuovo il momento della ferma. Taceva il campanaccio e i cacciatori, padre e figlio, di nuovo a lezione: da una parte il maestro, di contro l'allievo, figlio attento di Diana. E la lezione si concludeva con il voto: il più delle volte positivo e buono, a volte ottimo, ma di tanto in tanto non mancava lo scarso e l'insufficiente. Perchè nella caccia alla regina più che l'intelligenza logico - discorsiva, vale l'intuizione prammatica, la percezione istintiva del possibile frullo e della via che seguirà lei, l'impenitente delle sorprese, con la sua astuzia alata.
Così la storia infinita dei due beccacciari, e poi il ritrovo alla masseria e sul tavolo le beccacce abbattute e in più il camino dove si alimentava la fiamma perenne a riscaldare quelle pareti arabescate da tele di ragni. Ora don Ciccio non c'è più e nemmeno il grande maestro e padre. Solo il figlio ne è testimone e cacciatore narrante a vivere nell'attualità del presente e alla luce della memoria storica del padre. A caccia ancora della regina che nel grande bosco, ai primi freddi dell'autunno, riappare portata dai venti migratori, a ripetere la lotta antica e sempre nuova col cane e il beccacciaro. E lei non accetta compromessi perchè è rimasta identica a se stessa: unica grande maestra. Ma anch'essa ha la sua memoria storica perchè pare che la prima beccaccia, giunta al grande bosco dalla lunga migrazione, al crepuscolo, prima di lasciare le sue alcove naturali per involarsi verso la pastura, esegua un mezzo giro di ricognizione alla ricerca del fantasma di don Ciccio , e poi si avvii con quel magico volo felpato e silente, per i cieli della grande quercia a salutare l'ombra del maestro e del suo Friz.
Domenico Gadaleta