La confusione su questo tema è massima. Tutto a causa di una circolare esplicativa del Ministero dell'Interno, che invece di fare chiarezza ha portato ad un conflitto continuo tra poteri dello Stato. La giurisprudenza ha più volte sconfessato la posizione perentoria del Ministero, che a maggio 2016 ha stabilito il diniego assoluto del porto d'armi in presenza di condanne per i reati elencati nell'articolo 43, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, anche se sia intervenuta la riabilitazione. Posizione che contrasta con gran parte della giurisprudenza amministrativa, oltre che con la prassi amministrativa da sempre seguita e che lasciava fino ad ora la valutazione alle autorità caso per caso.
Già il Tar della Puglia e del Piemonte avevano riconosciuto l’interpretazione del Ministero dell’Interno antitetica ed obsoleta, non tenendo in nessun conto dell’istituto della riabilitazione e della condotta attuale del cittadino. Ora anche il tribunale di Trento, come apprendiamo da una nota di Armi e Tiro, ha accolto la domanda di un cittadino, che si è visto rifiutare il porto d'armi per una condanna risalente a vent'anni primi.
I giudici hanno osservato che non è corretto considerare le condanne passate come un fatto immodificabile. Nel caso specifico il reato era stato convertito in una multa in considerazione del fatto che l’indagato era incensurato. Per questi motivi il reato non può essere considerato ostativo al rinnovo del porto d’armi in maniera automatica. Vero è, invece, che gli organi preposti devono valutare caso per caso il comportamento dei richiedenti negli anni e decidere quindi se la persona in oggetto ha tenuto una condotta rispettosa della legge o meno.