Quel giorno pioveva. Dio ne mandava così tanta che più non poteva. Ma a me e Giampiero ci voleva ben altro per tenerci a casa. Mancavano pochi giorni alla chiusura della caccia di selezione ed io non ero ancora riuscito ad abbattere la femmina giovane di capriolo che mi era stata assegnata. Su un’insistente (non tanto, per la verità!) invito di Giampiero, e nonostante le avverse condizioni atmosferiche, avevamo deciso di tentare ugualmente un’uscita. Tanto che avevamo da perdere? Eravamo ai primi di marzo e la temperatura era insolitamente mite. A causa della pioggia insistente che continuava a cadere, prima di raggiungere il nostro appostamento decidemmo di fare un lungo giro con il fuoristrada per vedere se fossimo riusciti ad avvistare qualche capo di selvaggina. Facemmo un insolito IKA (Indice Chilometrico di Avvistamento) stando ben comodi nella L 200 di Giampiero, godendo della nostra reciproca compagnia. Nonostante il maltempo, avvistammo parecchi animali: dei bellissimi fagiani, qualche femmina di daino e tantissime lepri “italiche” che, in alcuni casi, ci costrinsero a frenare per evitare di investirle, ma nessun capriolo. Arrivammo alla capanna dell’Uccellina, il punto di ritrovo della nostra squadra di caccia al cinghiale, che mancava poco al tramontar del sole e a dispetto della nostra fama di “duri”, nessuno se la sentiva di scendere dal fuoristrada per andare a sedersi su un sasso sotto la pioggia battente. “La caccia è un piacere, se non si pratica stando comodi, che piacere è?”. Nessuno c’impediva di starcene in zona, aspettando che facesse buio o che smettesse di piovere a chiacchierare di caccia, di armi e di cani……..Se c’è una cosa che non manca a due amici come noi, sono proprio gli argomenti.
Con la luce del giorno che andava scemando, decisi di aprire il finestrino del fuoristrada per cambiare l’aria, e così facendo mi accorsi che la pioggia era parecchio diminuita. Mi venne voglia di prendere il mio 8 x 42 e di andare a vedere se nel prato del “Dori” fosse uscito qualche animale al pascolo. Giampiero, intuendo le mie intenzioni, mi apostrofò con un sorriso: “Ma dove vai con questo tempo? Dai, rassegnati. Oggi è andata così, vedrai che domani andrà meglio”. Non gli risposi nemmeno. Se quel giorno avevo soltanto voglia di farmi una chiacchierata con il mio grande amico, saremmo rimasti alla casa di caccia davanti al camino.
Sicuramente sarà una deformazione professionale, ma quando ho il binocolo al collo e la carabina a portata di mano, l’istinto predatore s’impossessa sempre di me. Camminai una cinquantina di metri in un prato che sembrava un acquitrino, ringraziando mentalmente la bontà dei miei scarponcini, e come giunsi al limitare del bosco impugnai il binocolo. Il campo del Dori è un tratto di terreno lasciato volutamente incolto, dalle dimensioni di un rettangolo di circa quattrocento metri per duecento. Qua e là è cosparso da pochi, bassi cespugli, che non offrono nessuna protezione alla selvaggina. Da dov’ero potevo avvistare persino un fagiano o una lepre anche se erano accovacciati nel campo. Da una prima “sbinocolata” mi sembrò che nel pratone non ci fosse niente ed ero quasi deciso a ritornarmene alla macchina, quando una familiare voce alle mie spalle mi bloccò. “L’hai visto quel capriolo su in cima, quasi attaccato alla macchia?”. Quel diavolo di un capalbiese! Giampiero mi era arrivato addosso senza che io me ne fossi accorto. “Riesci a capire se è maschio o femmina!”. Continuò. “No! Corri alla macchina a prendere il lungo e la carabina. Io intanto lo tengo d’occhio”. risposi.
Devo ammettere che l’essere stato battuto da Giampiero nell’avvistamento mi faceva “rosicare” un po’, ma lui era il Re delle Forane e quella era la sua zona, in quella bellissima tenuta c’è nato. E poi quell’ombra grigiastra che noi identificammo a fatica come un capriolo si trovava a 338 metri di distanza (telemetrati) e la luce non era certo delle migliori. Giampiero ritornò silenzioso come se n’era andato, con in una mano la mia Weatherby MK V SS inox fluted calibro 257 Magnum e nell’altra lo specktive con oculare variabile 20-60 X. Io, per ogni eventualità, cominciai a preparare l’arma, mentre il caro amico di Capalbio e compagno di mille avventure piazzava il CTS 85. Giampiero, dopo essere stato pochi secondi con l’occhio incollato all’oculare del potente strumento ottico sussurrò eccitato. “Marco! Non ci crederai, ma quella è proprio un femmina giovane. E’ sola, ha la classica corporatura esile e di sicuro non è neanche pregna. Quanti metri?”. “Il bosco è a 338. Lei è a qualche metro meno, ma sono sempre troppi.”
Sicuramente Giampiero quel pomeriggio era in vena di scherzare, perchè decise di provocarmi e, quel che è peggio, ci riuscì! “Ehi! Pensi che ci arriva lassù la 257?”. “Vuoi scommettere?”. Gli risposi. “Se colpisci quella capriola da quella distanza me la mangio cruda!”.”OK è andata”. Voglio scusarmi con i lettori per il nostro comportamento poco ortodosso e se per una volta alla serietà e alla religiosità della caccia avevamo abbinato un pizzico di ironia, ma ormai la sfida era stata lanciata, anche se senza testimoni! Non sono mai stato un amante dei tiri a lunga distanza, ma non era la prima volta che li tentavo e che li eseguivo. Quindi, ben sapevo che il successo o l’insuccesso poteva dipendere molto dal risultato di precisi calcoli matematici e da una buona pratica. Dovevo far bene i primi e affidarmi all’esperienza.
Nonostante la pioggerellina insistente ed il terreno quasi del tutto allagato mi sdraiai ugualmente a terra, cercai un appoggio abbastanza solido sia per il bipede sia per l’impugnatura posteriore. Dopo aver trovato una sistemazione che mi sembrò ideale, feci quattro calcoli matematici. In poligono la mia 257 Weatherby Magnum piazzava tre colpi perfettamente al centro del bersaglio entro una moneta da due Euro a duecento metri di distanza. A trecento metri, stando alle tabelle balistiche, la mia ricarica con palla Nosler Ballistic Tip da 115 grani non doveva calare più di 17–18 cm. A 338 sicuramente si sarebbe abbassata qualcosina in più ed inoltre pioveva! La pioggia poteva essere influente? Ipotizzai di sì. Regolai il correttore di parallasse del mio 18 x 50 sui 350 mt, spinsi l’ingrandimento al massimo, inquadrai la capriola tra la seconda e la terza croce del reticolo, armai lo stecher, regolai la respirazione e quando mi sembrò di essere perfettamente fermo sfiorai il grilletto. Il rinculo abbastanza sostenuto della mia Weatherby m’impedì di vedere se il colpo era andato a segno, ma un’imprecazione alle mie spalle fu sufficiente a farmi conoscere l’esito del colpo. “L’hai presa! Fulminata sul posto. Bravo Marco”.
Il brutto di quando si spara a lunga distanza, con un calibro potente e con un cannocchiale a forte ingrandimento, è che non hai la possibilità di vedere bene se il colpo è andato a segno. E non si riesce nemmeno a sentire il classico “schiaffo” della palla che impatta sul corpo del selvatico. In quel momento non so se mi fece più felice il bel tiro, l’aver completato il piano di abbattimento, il non aver ferito l’animale (cosa che non mi è mai capitata da quando uso la 257 WM) o la soddisfazione d’essere riuscito a sbalordire un vecchio e testardo cacciatore come Giampiero. Partimmo al recupero a piedi, incuranti della pioggia e del fatto che ormai non ci si vedeva quasi più. Arrivati sul posto facemmo gli onori al selvatico, lo contrassegnai con il bollino numerato, lo pulii e poi dissi a Giampiero. “La testa la tengo io perché devo consegnarla per il controllo, ma il resto della spoglia prendila tu. Me la ridarai dopo che avrai scelto quale pezzo vorrai mangiarti “crudo”, e visto che ti voglio troppo bene, ti concederò di metterci una spruzzatina di limone…..”
Marco Benecchi