Quanti di noi non hanno un bel sogno nel cassetto? Io per esempio ne ho più di uno; chissà, forse col tempo qualcuno si avvererà, ma sono sicuro che gli altri rimarranno soltanto delle mere illusioni. Pazienza, così è la vita. Il sogno del mio carissimo amico Paolo (amico con la “A” maiuscola) è sempre stato quello di poter partire per un Safari al grande elefante africano. Paolo ha contratto il “mal d’Africa” da diversi anni, essendo reduce di molti viaggi nel continente nero, dove ha conquistato i trofei di buona parte delle maggiori antilopi, bufalo compreso, ma gli mancava un portatore d’avorio nella sua collezione. Finalmente all’orizzonte gli si aprì un piccolo spiraglio affinché potesse esaudire il suo desiderio. Dopo una serie interminabile di e-mail, fax, telefonate e…bonifici bancari venne scelta la destinazione e la data della partenza: Zimbabwe Tholotho Area, in ottobre. Paolo mi propose di partecipare all’importante Safari, ma purtroppo, a causa d’inderogabili impegni, a malincuore dovetti declinare l’offerta. Mi accollai però l’onere di curare “balisticamente” la spedizione e m’impegnai, in caso di successo, di mettere sulla carta quella che, sicuramente, sarebbe diventata un’indimenticabile avventura.
Paolo, pur essendo un grande appassionato di caccia a palla, per sua scelta non possiede un gran numero di armi. Ha soltanto tre carabine: una Weatherby Vanguard calibro 270 Winchester che usa per le cacce minori, una Browning European calibro 300 Winchester Magnum che adopera per la caccia alle antilopi africane ed infine custodisce con cura una vecchia Winchester modello 70 in calibro 375 Holland & Holland Magnum. Quest’ultima è stata la sua prima carabina e conseguentemente è rimasta anche la sua preferita. Con essa ha abbattuto di tutto: cervi e alci norvegesi, grossi cinghiali e coriacei bufali cafri; sarebbe stata idonea anche per atterrare un grosso elefante?
La Winchester “African”, come viene chiamata la versione in calibro 375 H.& H. M., è un’arma molto robusta, caratterizzata dall’azione cementata di colore grigio scuro, dai traversini di rinforzo sulla calciatura e dall’asola sul castello che è stata praticata per facilitare l’inserimento nel caricatore delle lunghe munizioni di origine inglese. La carabina di Paolo è dotata di una bella e versatile ottica variabile 6 x 42 in acciaio su attacchi a pivot EAW. Nessuno di noi due aveva mai praticato la caccia all’elefante, quindi per quanto riguardava il discorso armi dovevamo, per forza di cose, affidarci ai consigli e alle esperienze di altri. Insieme abbiamo letto molto sul tema, praticamente tutto quello che siamo riusciti a reperire scritto sia da cacciatori sportivi e professionisti contemporanei che da quelli dell’inizio del secolo. Famosi cacciatori d’avorio come: Lake, Blixen, Bell e tanti altri, usavano “per inginocchiare i giganti” anche dei piccoli calibri come il 256, il 303 l’8 x 57 e il 30.06, ma la maggioranza dei professionisti usava e consigliava per la caccia agli elefanti grosse carabine o pregiatissimi Express in calibri superiori al 450. Così, in base a quelle letture, mi permisi di proporre a Paolo di acquistare un’arma in un calibro più sostanzioso, visto che esistono delle buone carabine in 416 Remington Magnum, 416 Rigby o 458 WM, che valgono più di quello che costano.
Il caro amico declinò la mia offerta confidandomi che, semmai avesse avuto un magico faccia a faccia con un grande elefante, lo avrebbe fatto imbracciando la sua fedelissima 375 Magnum. A quel punto non insistetti, ma cercai quanto di meglio offriva il mercato per il nostro scopo. Horst Gunser, della Bignami, mi procurò tutto quello di cui avevo bisogno: una scatola di palle Monolitiche Solide dell’americana Barnes da 300 grani che dovevano garantire una buona precisione abbinata ad una fortissima penetrazione, dei bossoli Norma, degli inneschi Federal 215 Magnum e una scatola di polvere Norma 202. Con una dose di 68,4 grani di N 202 preparai cinquanta cartucce particolarmente accurate che, senza far riscontrare segni di pressioni alte, come inneschi spianati, bossoli deformati o anneriti in modo anomalo, difficoltà di apertura dell’otturatore, ecc, al cronografo, fecero registrare l’invidiabile velocità di circa 770 metri al secondo con relativi 5826 joule di energia. Provammo la ricarica prima al poligono per tarare l’ottica, poi in aperta campagna per saggiarne le prestazioni contro grosse pietre, tronchi d’albero e quanto altro avesse suscitato la nostra fantasia, sempre con effetti spettacolari.
All’aeroporto di Fiumicino salutai non uno, ma due amici in partenza: Paolo e la “nostra” 375. Per scaramanzia non gli dissi niente, ma dentro di me gli augurai buona fortuna. Il safari durò quindici giorni e se pur coincidesse con un periodo in cui ero molto impegnato, immancabilmente il mio pensiero era sempre rivolto allo Zimbabwe. Un bel giorno, mentre con i miei tre setters ero intento a dare la caccia agli ultimi fagiani rimasti in zona, squillò il mio telefonino. Nell’aprirlo vidi comparire sul display il nome: “Paolo”. “Come è andata!” Gli chiesi prima ancora che lui potesse aprir bocca. Mi rispose una voce cavernosa: “L’ho padellato”. Per niente impressionato replicai: “Quante libbre pesano le zanne e soprattutto con quanti colpi è venuto giù?” “Cinquantasette la destra, sessantadue la sinistra e di colpi ne è bastato uno solo!!” “Oggi fatti trovare a casa. Porto una bottiglia così mentre brindiamo ti racconto come è andata”.
Un racconto di caccia è come un buon sigaro o come un bicchiere di Whisky invecchiato; vanno gustati in ottima compagnia, con calma, in silenzio e con la giusta atmosfera. Riporto fedelmente cosa mi raccontò Paolo. Il fatidico incontro avvenne il sesto giorno di Safari. Paolo, il PH e i tracciatori si erano svegliati all’alba che ancora era notte e dopo una colazione rapida quanto frugale erano partiti sul Pick Up Toyota. La cerca si ripeteva come i giorni precedenti: si costeggiava con il fuoristrada il confine del Hwange Park alla ricerca delle tracce lasciate dagli elefanti se ne erano fuoriusciti. Alle undici del mattino s’imbatterono nelle peste fresche di cinque elefanti. Le impronte di un grosso maschio spiccavano nitide tra tutte le altre. I due trackers partirono veloci su quella traccia visibilissima e ben presto trovarono anche dove gli animali avevano mangiato e defecato. Al tatto i loro escrementi erano ancora caldi. Sempre controllando in un modo maniacale il vento si muovevano veloci per cercare di intercettare il piccolo branco prima che rientrasse nella Riserva. Procedettero nel silenzio più assoluto per circa tre ore sotto un sole feroce, messi a dura prova dall’andatura forzata imposta dai tracciatori. La Winchester di Paolo, con i suoi 4,7 chili di peso non era certo piacevole da portare, ma l’idea di affidarla ad un aiutante non lo sfiorò neanche per un attimo. Dalla strada che percorrevano i fuggitivi era evidente che si stavano avvicinando verso la zona protetta e questo era un male. Willy, il Professional Hunter, armato di carabina Ruger 77 calibro 458 Winchester Magnum, informò Paolo che se fossero riusciti ad intercettare l’elefante a pochi metri dal confine del Parco, avrebbe potuto tentare soltanto il famoso “Brain shot”, per cercare di fulminarlo sul posto; in caso contrario non era autorizzato al tiro, perché se l’animale, pur colpito mortalmente, fosse andato a spirare all’interno del Parco, sarebbero stati guai seri. Dopo un’altra mezz’ora di marcia finalmente avvistarono il branco. Gli elefanti erano a circa duecento metri e fendevano il bush come immensi fantasmi grigi. Willy, dopo un ennesimo sguardo al vento, decise di avvicinarsi a loro tagliandogli la strada e così sollecitò tutti a seguirlo. Dopo una corsa di pochi minuti affiancarono gli elefanti a non più di trenta metri di distanza.
Paolo prima controllò gli ingrandimenti dell’ottica e poi imbracciò l’arma puntandola contro il primo gigante della fila. Rimase così per alcuni istanti, ma non soddisfatto di quel che vide attraverso le nitide lenti del cannocchiale, decise di rimuoverlo completamente. Era giunto il momento di affidarsi alle sole mire metalliche. Willy, dopo aver verificato l’entità dei trofei, indicò il primo maschio sulla sinistra e prima di mettersi in punteria col suo 458 toccò leggermente un braccio di Paolo. Quello era il segnale pattuito per il via libera. Con un movimento fluido Paolo riportò la Winchester alla spalla, allineò tacca di mira e mirino appena dietro l’attaccatura della possente spalla dell’elefante ed infine strinse il grilletto. Sotto il violentissimo urto della potente palla il grosso animale s’inarcò accusando il colpo, scivolò appena sulle zampe anteriori ma partì ugualmente in una rovinosa fuga tra la fitta vegetazione. Quel che più sorprese il mio amico fu la mancanza del colpo da parte del PH, che invece di sparare si affrettò dietro al fuggitivo. Mentre correva disse a Paolo che secondo lui il tiro era stato buono. Ed aveva ragione perché l’inseguimento fu più breve del previsto. Trovarono infatti l’elefante, riverso sul fianco dove aveva ricevuto la palla, dopo appena un’ottantina di metri. Willy chiese comunque a Paolo di dargli un colpo per sicurezza e poi, finalmente, potè stringergli la mano.
L’elefante era stato ben valutato. Oltre ad essere un grosso esemplare, vantava anche un trofeo di tutto rispetto. Le zanne avrebbero in seguito fatto salire l’ago della bilancia a 57 libbre la destra e a 62 libbre la sinistra. Paolo sinceramente ammise che non sperava una simile fortuna e che si sarebbe accontento anche di meno. Verificarono gli effetti di quell’unica, micidiale palla. Il colpo aveva raggiunto il cuore trapassando di netto l’intero animale. Ed io devo ammettere che non mi aspettavo una prestazione simile da quel piccolo cilindro di ottone marino. Ne fui particolarmente orgoglioso e ringraziai il Colonnello Arthur B. Alphin per averla progettata. L’Africa ha tradizioni venatorie molto diverse dall’Europa e quindi a Paolo non fu certo chiesto di porgere al nobile animale “l’ultimo pasto”. Come rito propiziatorio, gli fecero tagliare la coda e con gli ispidi peli ci fece fare il caratteristico bracciale che mi regalò. Dopo che furono raggiunti da molti altri aiutanti, gli Skinners si diedero da fare per separare dal corpo la testa e per scuoiare l’intera carcassa. Mentre Paolo osservava meravigliato quelle complesse operazioni, rese possibili grazie al verricello della Toyota e da molte asce a manico lungo, arrivò un’orda di persone, sicuramente proveniente da un vicino villaggio. Ma chi li aveva chiamati? Erano stati allertati dagli spari o da qualche esploratore? Quando Willy diede loro il permesso di avvicinarsi, si avventarono sulla spoglia sanguinolenta e iniziarono a spolparla come se fossero una colonia di formiche rosse. Le zanne arriveranno tra qualche mese, Paolo non vede l’ora ma anch’io sono impaziente di poterle accarezzare. Per ora sono ben custodite a Bulawayo.
Ho voluto scrivere questa storia per ricordare a tutti gli appassionati di caccia a palla che la splendida avventura di Paolo è un’ulteriore dimostrazione che quel che più conta per il buon esito di un abbattimento è l’eccellente qualità delle munizioni ma anche e soprattutto l’accuratezza della mira. Se il mio amico avesse usato un’arma in un calibro maggiore, magari con una palla meno robusta, e non avesse colpito l’elefante con precisione, il risultato sicuramente sarebbe stato diverso.
Marco Benecchi