Ve l’ho mai raccontato come e quando ho abbattuto il mio primo cinghiale con la canna rigata? No? Allora credo proprio che dovrò raccontarvelo, anche perché, nonostante già possedessi una bellissima carabina semiautomatica Browning BAR modello Affut calibro 270 Winchester, il primo cinghiale che abbattei con una pallottola, anziché con la classica palla asciutta o, peggio ancora, con una cartuccia caricata a “terzarole” (molto in voga a quei tempi), lo presi con un Combinato Antonio Zoli modello SP calibro 12 - 8 x 57 JRS. Fu un’avventura indimenticabile, non solo per l’arma usata, ma anche per come fu vissuta. Allora ero appena un ventenne e di tempo da dedicare alla mia infinita passione ne avevo molto poco. Dopo essermi diplomato, senza neanche aspettare che finisse l’estate ero andato subito a lavorare quindi potevo permettermi di andare a caccia soltanto il sabato e la domenica, tempo e “tracciatura” permettendo, perché con la squadra di mio padre si partiva soltanto se gli animali erano stati tracciati, o come si dice dalle mie parti: “assestati” con certezza quasi matematica.
Era inverno inoltrato, non ricordo bene se dicembre o gennaio, quel che invece ricordo bene è che quell’anno di cinghiali ce n’erano molto pochi. Con la squadra non eravamo arrivati ad abbatterne neanche una trentina, ed io non ero riuscito a sparare ancora un colpo. Quanta importanza ha il fattore fortuna nella caccia al cinghiale? E’ determinante oppure contribuisce in modo molto modesto al buon esito di una battuta? Ci sono cacciatori che in una stagione tirano a molti cinghiali, mentre ce ne sono altri che in anni e anni non hanno mai avuto l’occasione di prenderne neanche uno; siamo proprio sicuri che questo dipenda esclusivamente dal fattore fortuna?
E’ innegabile che a caccia la buona sorte fa la sua piccola parte, ma sono fermamente convinto, come vedremo più avanti, che anche noi dovremmo sempre fare la nostra parte. Quello delle squadre di caccia al cinghiale è indubbiamente un mondo a parte. Parlare di vera e propria rivalità mi sembra un po’ eccessivo, ma credetemi se vi dico che tra le squadre di cinghialai difficilmente potrà mai esserci una genuina, disinteressata collaborazione. Ognuna “tirerà sempre l’acqua al proprio mulino”, tacitamente felice delle disavventure delle altre squadre e morbosamente invidiosa delle loro prodezze. Quell’anno invece successe un fatto insolito. La squadra di Vetralla chiese aiuto a quella di Civitavecchia, cosa mai accaduta prima. Il loro Capocaccia, di sicuro senza troppo entusiasmo, dovette ammettere che loro, essendo in pochi, non riuscivano quasi mai a fare dei buoni carnieri e quindi “per una volta sarebbero stati ben felici” di invitare una delle squadre confinanti perché da troppo tempo un grosso branco di cinghiali stava razziando indisturbato le loro colture agricole. Anche noi Civitavecchiesi non eravamo poi tantissimi, ma quella fredda mattina riuscimmo comunque a radunare un bel gruppetto di speranzosi cacciatori, con mio padre a rosicare perché era di turno al lavoro.
I tracciatori locali erano certi di aver individuato il branco rimesso in una macchia particolarmente vasta e di conseguenza difficile da battere con poche persone, ma quello sarebbe potuto essere un giorno memorabile se i due schieramenti fossero riusciti a collaborare bene insieme. Il cinghiale è un vagabondo, oggi si rimette in un bosco mentre domani in un altro, magari a svariati chilometri di distanza. La buona occasione andava sfruttata. Se fossimo riusciti a chiudere i selvatici in una zona ristretta, avremmo avuto buone possibilità di fare carniere. La macchia era molto grande ma il Capocaccia del luogo conosceva bene sia la zona sia il suo mestiere, così decise di sacrificare qualche posta per aumentare il numero dei battitori, visto che una posta avrebbe controllato si e no venti metri, mentre un bracchiere che grida e spara ne avrebbe coperti molti di più. Ci ritrovammo così con una trentina di poste e circa dieci battitori. Il massimo sarebbe stato quello di spingere gli animali verso le poste ben piazzate sia come vento sia come distanza. Il Capocaccia della squadra ospitante, per non far torto a nessuno, saggiamente decise di alternare gli uni con gli altri tra cacciatori residenti ed ospiti. Così io mi ritrovai di posta piazzato tra due persone che non avevo mai visto in vita mia. Cosa non certo tranquillizzante, stando agli insegnamenti di nonno e papà…Comunque, con i miei due nuovi amici ci sistemammo lungo un fosso all’interno della macchia alta che offriva un’ottima visibilità per il tiro. Ipotizzai che fossimo tutti dei veterani di quel genere di caccia, con io che a solo vent’anni ero senza dubbio quello con più “Cacciarelle” alle spalle.
Senza perder tempo con i soliti convenevoli, ci accordammo sui rispettivi angoli di tiro e ci mettemmo definitivamente in posizione. Il silenzio era assoluto; l’unico rumore che si sentiva in sottofondo era quello provocato dalle roncole (da noi chiamate marracci), con le quali qualcuno puliva le linee di tiro e al contempo si procurava qualche ramo da utilizzare come riparo. So per esperienza che il cinghiale non ha la vista molto acuta, ma percepisce velocemente i movimenti bruschi e le sagome inconsuete, di conseguenza è bene mimetizzare non il colore dei pantaloni, bensì la forma delle gambe. Suonò il corno, finalmente si cominciava. Eravamo troppo lontani dalla bracca per poterci godere le prime fasi della battuta perché i segugi vennero sciolti sull’altro versante del monte, quindi avremmo dovuto aver pazienza e stare comunque sempre attenti. Con me avevo il mio oggetto del desiderio di una vita: un bellissimo Combinato Antonio Zoli modello SP calibro 12 – 8 x 57 JRS. Un’arma che avevo comperato usata di recente, con i miei primi risparmi e che non vedevo l’ora di battezzare. Ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, nutro ancora un profondo rispetto per quella categoria di armi, forse poco compresa nell’ambiente venatorio nazionale, ma specialmente per la caccia in battuta al cinghiale la ritengo, combinato o drilling che sia, sempre un’ottima scelta. A quei tempi utilizzavo le sole mire metalliche, anche se nello zaino avevo un cannocchiale 4 X 32 con attacchi ad incastro saldati a piede di porco pronto per ogni evenienza. Caricai l’arma con una palla asciutta Brenneke di fattura FN e con una Teilmantel RWS originale da 196 grani, poi controllai il terreno sotto ai miei piedi, pulendolo da foglie e rami secchi che avrebbero potuto far rumore durante i miei movimenti. In lontananza sentii i primi spari, segno inequivocabile che una canizza era in corso.
Col passare del tempo la fucileria si fece sempre più intensa (a volte mi emoziona più della canizza!!); evidentemente i bracchieri stavano facendo bene il loro lavoro. I cani invece non si sentivano ancora, erano troppo lontani, ma potevo tranquillamente immaginare l’intensità della bracca. Tolsi la sicura e aguzzai l’udito, con la speranza di riuscire a captare qualche rumore, perché non è affatto raro che qualche cinghiale anticipi di molto la muta. Spesso e volentieri ci si concentra troppo sulla braccata trascurando quel che accade vicino alla nostra posta, è bene stare sempre all’erta per non farsi trovare impreparati. Ed ecco finalmente i primi latrati. L’adrenalina a quel punto stava rompendo gli argini e ad ogni secondo che passava la canizza si faceva sempre più intensa. Ad aumentare la tensione ci si misero anche i bracchieri gridando: “Attenti alle poste!”. Eravamo al clou della battuta ed io, nonostante il freddo, avevo le mani sudate ma ero pronto e concentratissimo, con l’udito e la vista accentuati al massimo.
Finalmente nel sottobosco percepii un grosso animale in avvicinamento. Ne riconobbi la caratteristica andatura ed anche una delle sue brevi soste. Portai subito il combinato alla spalla puntandolo in quella direzione ed ecco che apparve un magnifico cinghiale. Doveva aver avvertito il pericolo perché nell’attimo stesso in cui lo misi sotto mira, questi si bloccò per fiutare l’aria. Era a circa di venti–trenta metri da me, ma stava proprio davanti al vicino di posta che avevo alla mia destra. Istintivamente gli allineai tacca e mirino sull’attaccatura del collo ma aspettai prima di stringere il grilletto anteriore, quello che comanda la canna rigata. Con il cinghiale fermo sotto mira lanciai un’occhiata al vicino di posta e vidi che era totalmente ignaro della sua presenza, tanto che aveva ancora il fucile in spalla con la cinghia e, mentre io lo spiavo, si concesse anche il lusso di accendersi una sigaretta.
Tra i mille e più insegnamenti che ho ricevuto in tutta la vita sul comportamento da tenersi quando si è alla posta, dopo quelli relativi alla sicurezza il primo è: “Non rubare MAI il tiro ad un compagno di posta”. Io me l’ero ripetuto molte volte come un mantra, ma starmene fermo in quel momento era un tormento fisico, così aspettai ancora qualche secondo poi sparai. Il verro crollò sulle zampe anteriori letteralmente fulminato dalla potente pallottola ben piazzata. Non potete immaginare la reazione del mio vicino di posta. Buttò la sigaretta, nella frenesia di prendere il fucile quasi gli cadde dalle mani, addirittura s’impigliò con la cinghia. Poi, incurante che la battuta fosse ancora in corso, cominciò a gridare: “Che è stato? Ch’è successo? T’è partito un colpo?”. “Sta zitto e guarda cosa c’è appena dietro quelle quattro ginestre che hai davanti” gli risposi. Fu come dirgli che aveva un male incurabile...
In quel momento non seppi se essere più felice per me che in pena per lui. Ma non c’erano scusanti, se l’era cercata. La caccia al cinghiale in battuta è una cosa seria e deve essere praticata da persone serie con passione e impegno. Solo a chi la pratica superficialmente gli possono capitare episodi simili. E quando accadono non devono prendersela con nessuno se non con loro stessi. Nel frattempo arrivarono i cani che, dopo aver fatto un piccolo stop alla vista del cinghiale morto, ripresero la caccia con rinnovato vigore. Dai latrati e dagli spari capii che era stato trovato il branco. Sicuramente molti colpi dovevano essere andati a segno, altri no, specialmente quando dopo sentivi in lontananza il Capocaccia gridare di tentare di fermare almeno i cani per non perderli. Poi, pian piano, il cuore ricominciò a battere, il sangue ricominciò a scorrere e mi venne quasi da chiedermi: “Ma sono stato proprio io? E’ stato tutto reale?” Il primo pensiero andò a mio padre e alla faccia che avrebbe fatto quando gli avrei raccontato come s’era svolta tutta l’azione. Desideravo ardentemente vedere quel verro da vicino e verificare l’effetto del colpo, ma nessuno poteva muoversi. Il resto della giornata non ci riserbo altre sorprese e quando “Radio Macchia” ci comunicò che la battuta era finita, partii come un razzo per andare a vedere il cinghiale da vicino. Era veramente un bell’animale maschio, un vero maremmano puro, col corpo corto, la testa grande e tutte le setole brinate. Lo stimai sui settanta chili con un trofeo molto modesto. La palla era entrata nel collo, fuoriuscendo dalla parte opposta. Inutile dire che ero felice oltre ogni immaginazione. Quel giorno non lo dimenticai più, ovviamente perché avevo abbattuto il mio primo cinghiale con una munizione a pallottola, poi perché dalla bella coalizione tra le due squadre avevamo abbattuto dodici bei cinghiali. Un vero record per quei tempi. Da quel giorno abbandonai quasi totalmente il semiautomatico liscio a favore della canna rigata per la caccia al cinghiale in battuta, alternando il Combinato con la Browning BAR secondo esigenza e non me ne sono mai pentito. Quanto tempo è passato da allora……
Marco Benecchi