Il continuo clamore suscitato ad opera delle associazioni di agricoltori sul tema dei danni procurati alla produzione agricola dal numero eccessivo di ungulati presenti in alcune regioni d’Italia è, al di là di ogni possibile strumentalizzazione, sicuro sintomo di un problema reale.
Occorre tuttavia evitare nel modo più assoluto che rimedi presi in tutta fretta si rivelino palliativi momentanei e, come spesso avviene in Italia, si eviti di affrontare seriamente la questione, perché questo potrebbe comportare mutamenti dolorosi e mettere a rischio la popolarità di qualche politico.
La causa degli eccessivi danni alle produzioni agricole deve essere obbligatoriamente individuata in una errata gestione delle popolazioni di ungulati, la cui responsabilità ricade certamente sulle spalle della pubblica amministrazione ma che non vede esenti da colpe ambientalisti e cacciatori, i quali in vari modi condizionano le scelte di politica locale. Gli ambientalisti hanno da sempre ostacolato con ogni mezzo qualsiasi seppur timido tentativo di realizzare un efficace controllo del numero degli ungulati presenti nei parchi e nelle aree protette. I cacciatori, soprattutto quelli ben organizzati nelle squadre di caccia al cinghiale, sono sempre stati di contro ben contenti che in parchi e aree interdette alla caccia i selvatici potessero proliferare e diffondersi all’esterno come da una sorta di riservino privato. Inoltre essi restano tenacemente legati a forme e abitudini venatorie che spesso ben poco hanno in comune con l’applicazione dei principi di una corretta gestione del suide ormai condivisi da tutti i tecnici del settore. Per non parlare poi delle scriteriate immissioni di esemplari provenienti dall’est europeo.
Esiste infine un ultimo aspetto della questione: la relativa novità per gli agricoltori italiani di doversi confrontare e in qualche modo convivere con il problema dei danni da ungulati, determinata dalla recente esplosione demografica di questi animali. Aspetto peraltro aggravato dalla peculiarità del “caso Italia”, che rende difficile e critico questo confronto.
L’esclusione del diritto di caccia dalla sfera di quelli connessi alla proprietà fondiaria rende impossibile, fatto salvo il caso in cui questi diritti si ricompongano per altre vie nell’azienda venatoria, un cointeressamento diretto dell’agricoltore o proprietario con lo svolgimento della caccia sulle proprie terre e la quasi automatica affermazione di una razionale gestione faunistica sulla totalità del territorio utile. La dicono lunga in tal senso le varie proposte di legge giacenti in parlamento tendenti ad ottenere l’abolizione o la modifica dell’art. 842 del codice civile, che garantisce ai cacciatori il diritto di accesso ai fondi agricoli ai fini dell’esercizio venatorio.
Non è tuttavia certo questa la giusta direzione per la soluzione del problema.
La via da percorrere per ricomporre gli interessi apparentemente inconciliabili di agricoltori e cacciatori è quella tracciata, pur se assai timidamente, dalla Conferenza Regionale della Caccia tenutasi ad Arezzo nei giorni 13 e 14 febbraio 2009 su iniziativa della Regione Toscana.
Il documento programmatico conclusivo ha introdotto un elemento di novità che rappresenta, se adeguatamente sviluppato, una sorta di rivoluzione copernicana nella gestione degli ungulati selvatici in Italia, nonché di tutte le problematiche ad essa connesse.
Porrebbe infatti le basi per una equa rifusione dei danni subiti dai produttori agricoli e potrebbe costituire fonte di reddito aggiuntivo per i medesimi, per gli operatori turistici e, perché no, anche fonte di finanziamento per ATC e aree protette.
L’elemento in questione è rappresentato dal punto i) del paragrafo dedicato alla gestione degli ungulati ed alla prevenzione dei danni alle coltivazioni, dove si afferma la necessità di “verificare la possibilità di attivazione di una filiera corta basata sulla commercializzazione di capi provenienti da interventi di controllo.”
Paradossalmente, secondo il mio modo di vedere, è proprio il punto posto a conclusione di tale paragrafo quello che invece per primo è in grado di porre le basi economiche della soluzione di molti dei problemi sul tappeto e di indurre i cacciatori a modificare i propri comportamenti. Soprattutto se da una iniziale commercializzazione di capi provenienti da interventi di controllo si passasse successivamente a far conferire in questa filiera su base volontaria anche capi prelevati in normale attività di caccia selettiva o in braccata.
Vediamo come ciò potrebbe accadere prendendo ad esempio il modello tedesco. Ovviamente, si dirà, nella mitteleuropa esiste una tradizione antica nella gestione degli ungulati: per questo motivo i cacciatori si comportano mediamente in modo più virtuoso, più “etico”, rispetto ai nostri compatrioti. Niente di più sbagliato: tutto il mondo è paese e gli uomini sono gli stessi dappertutto. In Germania il diritto di caccia appartiene ai proprietari fondiari. Se non lo esercitano direttamente sono obbligati a cederlo a singoli o ad associazioni di cacciatori, i quali diventano automaticamente responsabili dei danni procurati alle colture da parte della selvaggina.
Ecco quindi poste le basi giuridiche di una corretta gestione: gli animali selvatici diventano una risorsa economica da gestire e dunque rispettare, ma anche da mantenere costantemente ad un livello di densità sostenibile, per non dover incorrere nell’obbligo di rifondere danni eccessivi ai proprietari dei fondi. In ogni caso, dove la figura del proprietario non coincide con quella del gestore-cacciatore, una parte delle carni selvatiche saranno oggetto di immissione sul mercato, proprio allo scopo di ricavare fondi per ricompensare gli agricoltori dei danni subiti. Da tutto ciò discendono in modo estremamente naturale una serie di conseguenze e di comportamenti che mi proverò sinteticamente e schematicamente ad elencare:
applicazione di tecniche di caccia che escludono generalmente l’uso di segugi a gamba lunga per non stressare inutilmente gli animali prima dell’abbattimento, in modo da garantire la migliore qualità delle carni e consentire così un tiro meditato al cacciatore;
insistenza quasi ossessiva sulla corretta scelta del capo da prelevare anche nel caso dei cinghiali, in cui viene privilegiato l’abbattimento dei giovani allo scopo di non destrutturare le popolazioni gestite;
necessità di effettuare tiri “puliti” (al collo o al torace dietro la spalla) per non danneggiare le carni;
verifica puntuale, a fine caccia, dell’esito dei tiri effettuati e, se è il caso, immediato intervento del conduttore di cane da traccia. La non disponibilità di cane da traccia e conduttore può essere valido motivo per non intraprendere l’azione di caccia;
trattamento della spoglia con tutti i migliori accorgimenti per garantirne qualità e valore commerciale;
presenza di una rete commerciale cui vengono conferite legalmente le carni selvatiche;
riduzione degli atti di bracconaggio aventi per scopo la vendita illegale delle suddette carni;
sviluppo dell’utilizzo di proiettili privi di piombo, vista la ormai dimostrata caratteristica di questo metallo di inquinare le carni del selvatico abbattuto per un ampio raggio attorno al tramite della ferita, con l’irradiamento di minuscole particelle altamente tossiche.
Proviamo ora ad immaginare cosa potrebbe accadere in Italia se le carni degli animali abbattuti in operazioni di controllo e di quelli conferiti su base volontaria da parte dei cacciatori di selezione e delle squadre di cinghialai potessero acquistare a determinate condizioni un valore economico riconosciuto alla luce del sole e alimentare così positivamente un indotto turistico-gastronomico. Non sta a me stabilire l’uso delle risorse che finirebbero a disposizione di ATC, Parchi, Aree protette, ZRC ecc. ed in misura minore rifonderebbe i cacciatori di una parte delle spese sostenute. Certamente potrebbero essere utilizzate anche a vantaggio degli agricoltori.
Voglio solamente prospettare uno scenario possibile, realizzabile senza alterare i presupposti giuridici della caccia in Italia.
Si fa un gran parlare di formazione dei cacciatori, di etica venatoria, di comportamenti virtuosi. Le scuole, i corsi e le lezioni di docenti qualificati ed esperti cacciatori sono sicuramente utili e necessari ma non possono da soli trasformare chi non è disposto ad essere trasformato. Chi non è disposto ad una crescita culturale per libera scelta, pur aiutato in questo da una formazione di buon livello, può esservi in qualche modo indotto da un motore potentissimo: l’interesse economico.
Perché, purtroppo, non sempre i valori etici vengono condivisi da tutti mentre lo sono con indiscutibile maggior frequenza quelli economici. Se, superando falsi e inopportuni moralismi, riuscissimo a far coincidere le due sfere, potremmo ottenere un risultato di portata storica per la caccia in Italia.
Claudio Nuti