Sicuramente una delle frasi più celebri della letteratura venatoria mondiale è quella scritta dal famoso conte cecoslovacco Paul Pallfy nel suo libro cult Mezzo secolo di caccia: “Non contano gli anni che mi restano da vivere, ma quante stagioni di caccia al bramito mi possono essere ancora concesse”.
Come potremmo biasimarlo? Solo che io, maremmano di nascita e tuttora residente in quella meravigliosa fascia litoranea di macchie immense che va da Cerveteri a Cecina, l’ho riadattata alle mie esigenze in: “Non contano gli anni che mi restano da vivere, ma quante stagioni di caccia al camoscio mi possono essere ancora concesse!”. Perché se per cacciare il cervo al bramito non occorrono grandi doti fisiche, per inseguire il Signore delle Vette occorre invece essere super allenati e con tutti i controlli medici a posto. Credo che la caccia in montagna in generale dovrebbe essere considerata come una vera e propria ”verifica dello stato fisico di un cacciatore” e delle sue reali possibilità. Perché spesso lo sforzo necessario per catturare un camoscio può farci conoscere i nostri limiti. Detto ciò, mi sembra superfluo ricordare che, in previsione di un’uscita autunnale in montagna, bisogna provvedere con largo anticipo a fare un duro e costante allenamento.
Grazie alla mia infinita passione, alla mia caparbietà e alla preziosa collaborazione di pochi ma sinceri amici, nella mia vita ho avuto la fortuna d’inseguire tutta la selvaggina cacciabile in Italia e buona parte di quella europea e di tutte le cacce che ho praticato, quella che mi ha maggiormente entusiasmato e di cui ho i ricordi più belli è sicuramente la caccia al camoscio in alta montagna. Persino le mie ferie estive sulle Alpi sono in parte dedicate alla continua e frenetica ricerca di nuove occasioni che mi possono mettere nelle condizioni di cacciare il Re delle Vette e per preparare il mio “non più giovanissimo” fisico per l’eventuale, splendida avventura. Da anni ho scoperto a mie spese che c’è una grande differenza tra il camminare nella macchia per un giorno intero e lo scalare le rocce anche per poche ore soltanto! Poi, per trascorrere una bellissima, indimenticabile giornata in alta montagna, occorre anche un’altra cosa: una coppia di veri amici! Ed io, per recarmi a caccia di camosci, ormai ne ho due fedelissimi: Pietro e suo figlio Andrea, appassionati ed esperti cacciatori di montagna, con i quali un bel giorno decidemmo di partire per una spedizione sulle Alpi cuneesi.
Organizzare il tutto ed arrivare puntuali, come sempre, all’appuntamento con le nostre guide, fu più facile a farsi che a dirsi. E’ risaputo che per cacciare il camoscio non sono necessarie delle levatacce, ma io quando devo andare a caccia se non parto da casa almeno un’ora e mezza prima che sorga il sole non mi diverto. Guarda caso anche Pietro e Andrea la pensano allo stesso modo, così uscimmo dall’agriturismo che ci ospitava salutati da un cielo terso e stellato che preannunciava una bellissima giornata. Ci avrebbero fatto da guide Maurizio e Giuliano, due cacciatori del luogo dotati d’infinita esperienza ed instancabili arrampicatori. Capimmo al volo che erano animati da un profondo amore sia per le loro montagne sia per i selvatici che le popolavano e in seguito si dimostreranno anche oltremodo cordiali e simpatici.
Lasciate le macchine sulla strada provinciale, zaini e armi in spalla, cominciammo subito a salire. Il dislivello mi mozzò il fiato e occorsero diversi minuti prima che riuscissi a regolarizzare la respirazione. La temperatura era di qualche grado sopra lo zero e l’erba brinata scricchiolava sotto i nostri scarponi. Procedevamo in silenzio con un’andatura abbastanza veloce, senza incertezze, spesso dovendoci aiutare anche con le mani. Giuliano apriva la fila seguito da me poi da Andrea, Maurizio ed infine Pietro che chiudeva la fila. Insolitamente in cinque non facevamo praticamente nessun rumore, tolto quello provocato dal nostro sommesso ansimare. Dopo aver percorso poche centinaia di metri, avvistammo quattro caprioli e un fugace camoscio. Come dice quel proverbio? “ Il buon giorno si vede dal mattino”. Io ero in preda ad un entusiasmo degno di un novellino, mentre i miei due nuovi compagni piemontesi si scambiavano, frequentemente e sorridendo, delle fugaci occhiate. Chissà cosa pensavano?!
La mia curiosità venne ben presto appagata, quando dopo circa un’ora di marcia, silenziosissimi, ci affacciammo in una grande valle. Il cuore mi saltò subito di qualche battito. In bella mostra, come se fossero stampati sopra una cartolina, un discreto numero di camosci pascolava ignaro della nostra presenza. Saranno stati almeno una decina e ce n’erano di tutte le classi di età. Maurizio e Giuliano mi chiesero cosa ne pensassi della loro riserva, ma sinceramente non ebbi la voglia di rispondergli, perché in un momento simile rompere il silenzio sarebbe sacrilego. I camosci avvistati erano praticamente tutti a tiro, tra i 160 e i 360 metri. Andrea al telemetro (benedettissima invenzione) ci aggiornava di continuo. Maurizio, oltre ad avere innumerevoli doti, era soprattutto un professionista e quindi si comportò come tale. Dopo alcuni minuti spesi a valutare ogni singolo capo, sentenziò che uno dei due maschi che stavano sopra ad un costone di roccia simile a un dente gigantesco rispondeva alle caratteristiche del capo che stavamo cercando. Senza perdere tempo mi preparai al tiro adagiando la mia Weatherby Ultralight Mark V calibro 270 Magnum sul bipiede. La mia Weath è in grado di fare una rosata di quattro colpi in due–tre centimetri a duecento metri di distanza. Il camoscio prescelto si trovava a duecentosette metri esatti, quindi, sfruttando la precisione delle mie palle originali Hornady Spire Point da 130 grani, avrei potuto tentare il tiro al collo, quando invece…
Posizionai il parallasse del mio 25 x 52 sui 200 metri, misi a 12 - 14 gli ingrandimenti e mirai il maschio designato al centro della spalla. Calmo, regolai il respiro, armai lo stecher e ricontrollai se ci fosse del vento laterale. Quando mi sembrò che fosse tutto a posto e di non aver trascurato nulla, sfiorai il grilletto. Mi aspettavo di assistere ad un abbattimento netto e pulito, quando invece vidi la palla impattare sulla parete rocciosa alta. Troppo alta! Inspiegabilmente avevo volato il camoscio, così ricaricai veloce, mirai “filo pancia” e ripetei il tiro, questa volta con più successo. Il camoscio rotolò sui massi per poi volare fino in fondo alla valle. Come potevo aver fallito il primo colpo così clamorosamente?
Mi tornarono in mente anche gli altri tiri falliti allo stesso modo, sempre con la stessa arma e sempre a caccia di camosci. Ma così su due piedi non seppi dare una spiegazione a quegli errori. A risolvere lo spinoso dilemma ci pensò Andrea poco dopo, quando, chiesta la Weatherby in prestito, abbatté un altro bel maschio che nel frattempo gli era stato indicato da Giuliano. Solo che lui, a differenza di me, invece di usare il bipiede preferì avvalersi dello zaino e il colpo fu di una precisione chirurgica. In meno di dieci minuti avevamo già abbattuto due splendidi esemplari, un fatto non certo eccezionale per quella splendida, ricca zona di caccia! Comunque penso sia doveroso ritornare al tiro precedente, per cercare di dare una spiegazione logica all’insolito fatto. Credo che il colpo fallito sia dipeso da alcuni fattori: come l’appoggio troppo rigido del bipiede sulla roccia, la lunghezza della canna della Mark V e forse anche la sua snellezza o il peso troppo contenuto della Ultralight. Per esperienza so che se si utilizza un bipiede tattico dopo aver tarato una carabina in poligono sul rest, il tiro risulta sempre leggermente più alto, ma non mi era mai capitato così accentuato. Un “Weidmannsheil” pronunciato da Maurizio, abbinato a una calorosa pacca sulla spalla furono il premio che desideravo. Lo stesso trattamento lo ricevette anche Andrea per essere stato altrettanto bravo, se non di più. Tutte le volte che ho l’occasione di abbattere un camoscio, provo delle emozioni particolari. Ero felicissimo del risultato e orgoglioso del fatto che ancora una volta il mio fisico aveva risposto bene a tutte le chiamate.
Insieme ad Andrea incitammo i nostri accompagnatori ad andare subito al recupero, ma loro ci gelarono dicendoci che anche Pietro aveva diritto ad impugnare una carabina in quella valle incantata. Che indelicatezza! Sia io, sia suo figlio ce ne eravamo quasi dimenticati! Giuliano, dopo aver perlustrato l’intera zona con binocolo sempre incollato agli occhi per almeno un’altra mezz’ora, a gesti c’invitò a seguirlo, mentre nel frattempo Maurizio sarebbe partito da solo per il recupero delle due spoglie. Avrebbe eviscerato i camosci per poi sistemarli in attesa del nostro ritorno. Ora che eravamo rimasti in quattro, con “il sessantasei per cento del lavoro già fatto” camminavamo con maggior vigore e con uno stato d’animo diverso. Eravamo nel regno dei camosci ed era tutt’altro che remota la possibilità d’incontrare ancora animali giusti. Aggirammo la montagna per scorgere un tratto della stessa valle che prima non riuscivamo a vedere e alla prima sosta ne approfittammo per rifocillarci. Mentre io preparavo i panini per l’intera comitiva, Giuliano prese a controllare minuziosamente il perimetro circostante. Mi accorsi che doveva aver visto qualcosa d’interessante dal sorriso che gli affiorò sulle labbra. Seguendo le sue indicazioni individuammo un gruppo di femmine che con i loro piccoli brucavano tranquille, ma nessun maschio era nelle vicinanze. L’amico piemontese conosceva i camosci della riserva uno ad uno e sapeva quel che faceva. Invitò Pietro a prepararsi perché un buon becco “doveva” pur esserci in zona. Infatti, poco dopo: “Eccolo!!” esclamò Giuliano: “Quello è il nostro capo. Quando sei pronto puoi sparare”.
Andrea al telemetro sussurrò la distanza: “Duecentocinquantaquattro metri”. Quando finalmente riuscii a vederlo anch’io nel binocolo, puntellai subito i gomiti aspettando di vedere l’esito della fucilata. Era un maschio bellissimo. Fiutava l’aria a bocca aperta assaporandone l’usta. Pietro non perse tempo e con movimenti lenti ma coordinati si mise in punteria. Posizionò la sua Weatherby Vanguard calibro 257 WM sullo zaino e prese accuratamente la mira attraverso il 12 x 56. Suo figlio Andrea gli confermò definitivamente la distanza poi regnò il silenzio. Passarono pochi secondi durante i quali Giuliano ed io tenevamo sotto controllo con i nostri rispettivi binocoli il camoscio, mentre Pietro regolava la respirazione. Il colpo partì inatteso fulminando l’animale. La centoquindici grani Ballistic Tip ricaricata dal sottoscritto aveva fatto un ottimo lavoro. Solo allora potemmo dare sfogo a tutta la nostra gioia, alla quale seguì il solito copione, già visto molte altre volte.
Il recupero fu facile e le fotografie si susseguirono numerose. Il camoscio era un bel capo, reso ancora più bello dal fatto che né io né Andrea ancora avevamo visto i nostri. Come d’incanto, nelle mani di Giuliano apparve una bottiglia di vino rosso pregiato. Un bel brindisi fu d’obbligo. Ma dopo il piacere c’è sempre il dovere e noi dovevamo organizzarci per il rientro. Raggiungere Maurizio non fu certo uno scherzo, ma alla fine ci ritrovammo tutti felici come non mai. Io e Andrea ci tuffammo letteralmente sui nostri rispettivi capi, godendo del loro possesso. Era da tanto tempo che desideravo poter di nuovo annusare l’odore aspro e caratteristico dei becchi in amore. Messi vicini, i tre maschi sembravano figli della stessa cucciolata, erano praticamente identici. Ad occhio dovevano avere dai quattro ai cinque anni, il maschio di Pietro aveva il trofeo “molto resinato”, quindi era più caratteristico. Tutti avevano un bel manto folto e nero con le “briglie” ben marcate. Maurizio eseguì correttamente il nobile rito del Weidmannsheil porgendo ad ognuno di noi il Bruch, mentre Giuliano marcava i selvatici con le apposite fascetta al garretto e poi ne valutava correttamente l’età.
Mentre eravamo tutti euforici intorno ai capi abbattuti, cambiò il tempo come a volerci ricordare che il rientro non sarebbe stato né veloce né agevole, così cominciammo a prepararci. Eravamo in cinque con tre robusti capi da trasportare a valle. Approntammo una strategia che si dimostrerò vincente. Io avrei trasportato il mio camoscio nello zaino, Giuliano il maschio di Pietro nel suo, Maurizio quello di Andrea, mentre padre e figlio si sarebbero accollati l’onere di trasportare tutte le nostre attrezzature. Quando si è allegri e con il carniere pieno la stanchezza grava molto meno. Arrivammo in paese che ancora era giorno e ne approfittammo per mangiare ancora qualcosa prima di portare i capi all’Ufficio Caccia, dove sarebbero stati misurati e pesati per riportare i dati biometrici nelle apposite schede. Alla spicciolata ci raggiunsero altri cacciatori, locali e non, che si unirono a noi per conoscere l’esito dei colpi che avevano disturbato il silenzio ovattato della loro valle incantata. Tutti insieme rivivemmo ogni singolo attimo di quella stupenda giornata, saziandoci il corpo e lo spirito con le specialità della montagna e con la genuina amicizia dei suoi indomiti abitanti. Al pensiero che avrei dovuto lasciarli mi venne un nodo allo stomaco, ma sperai che la vita mi potesse concedere ancora giornate come quella.
Voglio ringraziare i miei amici piemontesi per la loro competenza e loro infinita diponibilità. Mentre a Pietro e Andrea va invece tutta la mia gratitudine per aver reso possibile questa splendida avventura.
Marco Benecchi