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13/10/2020 

 
 
Sono monarca di tutto ciò che osservo e nessuno può contestare questo diritto”, scrive Henry David Thoreau nel suo famoso Walden. Si riferiva alle regioni del Massachusetts che aveva girato in lungo e in largo e dove, in un angolo verde vicino al lago Walden, aveva soggiornato in estrema semplicità e frugalità. Lì Thoreau si sentiva re. Il potere dell’immaginazione ci da questa opportunità: fantasticare di vivere beatamente in un luogo dove si possano realizzare i nostri sogni e che possieda quei requisiti di amenità che noi prediligiamo. Per me quei requisiti erano e sono caratterizzati da natura rigogliosa, alberi maestosi, radure verdi e quiete, presenza di animali selvatici. Caratteristiche, queste, che dipingono egregiamente la parte più interna della maremma, e diversi altri lembi del nostro territorio, quelli ancora miracolosamente scampati alla depredazione edilizia, all’industrializzazione indiscriminata, alle discariche monumentali, alla proliferazione senza sosta di tralicci, antenne, ripetitori tv, torri eoliche, megadistese di pannelli solari. Per questa ragione, passando vicino a queste oasi di verde scampate al disastro, ho più volte, mentalmente ripetuto la frase di Thoreau: “Qui, io mi sento monarca”...

In questi spicchi di natura quasi intatta io non ho mai costruito e neppure stabilito una dimora reale e costante, ma che importa? Si può gioire anche di ciò che non possediamo, della sublimazione di
un luogo, di un pensiero, di un’idea. E ogni volta che torno in quei luoghi sono pervaso da benefiche suggestioni. In quegli scampoli superstiti di natura selvaggia anch’io ho fatto in tempo a conoscere
giorni e atmosfere di indicibili emozioni, e a capire che solo l’oculata gestione dei beni naturali dona frutti duraturi, perchè la rapina conviene solo a chi non nutre amore per la terra e per le sue molteplici creature. Il principio che deve oggi prevalere, sull’istinto incontrollato della predazione, è quello mutuato dalla regola benedettina:

cogliere i frutti dell’albero senza tagliare né intaccare le radici. Io, con il tempo, ho cercato di osservare questa regola con coerenza e disciplina interiore. Ma è bene cominciare dal principio.
Mi chiamo Aldo Giorgio Salvatori, solo Giorgio per gli amici, e, al di là degli affetti familiari, ho avuto solo tre grandi passioni nella vita: la caccia, i cavalli e quell’amore smisurato per la wilderness e per gli spazi liberi che, meglio di tutti, possedevano gli Indiani d’America.
Essere iniziati alla caccia, per chi era bambino negli anni cinquanta-sessanta e apparteneva, come me, a una famiglia borghese, significava imparare a sparare insidiando soprattutto piccoli migratori come tordi e allodole. Non è edificante, oggi, dichiararlo, ma allora quelle erano le prede in larga disponibilità autunnale per un proficuo apprendistato. Solo più tardi sono arrivate cacce più importanti e impegnative.

Ho cacciato anatre, beccaccini e colombacci in Irlanda e Slovenia, urogalli, oche canadesi e l’orso baribal nel nord dell’Ontario e del Manitoba, ho osservato e filmato possenti mandrie di bisonti e di cavalli selvaggi nell’inverno glaciale del Wyoming e sulle Black Hills, ma i ricordi di natura, di caccia, di animali selvatici che più ritornano nei miei sogni sono memorie di casa nostra. E i bei ricordi sono un tesoro che nessun ladro può portarci via, neppure a mano armata.Apro lo scrigno che li contiene e i ricordi si dispongono davanti a me in bella mostra. In prima fila a condurli sul palcoscenico della memoria, c’è un uomo anziano, ma meno carico d’anni di quanti io ne abbia nel momento in cui scrivo queste righe. È mio nonno.

Aveva circa sessant’anni quando rinnovò il suo porto d’armi per il piacere di iniziarmi alle prime cacce. Con lui, apprendista meno acerbo, suo figlio Publio, mio zio. Una passione coltivata e vissuta in famiglia, come accade nove volte su dieci in Italia e che, durante l’infanzia, era stata abbozzata con il gioco, quando insieme a Sergio, il cugino dagli interessi più affini, costruivo cerbottane, fionde e archi rudimentali per insidiare merli e uccelletti nei cespugli e sui tetti.

Su tutti un ricordo è più vivido di tanti altri: ero ancora un bambino quando mio nonno e mio zio mi portarono sui monti Simbruini, in primavera, per farmi ascoltare i lontani richiami delle coturnici. E quando non ce la feci più con le mie gambe mio zio mi sollevò senza sforzo e continuò la marcia portandomi sulle sue spalle fino alla meta. In quella scuola all’aperto fui obbligato a trascorrere diversi anni di apprendistato prima del giorno in cui mi fu consentito di sparare. Prima a un bersaglio fisso, poi a un uccello in volo. Avevo dodici anni e ho ancora nelle orecchie il grido di gioia di mio nonno quando cadde la mia prima preda, un piccolo tordo sassello, abbattuto con la sua vecchia doppietta calibro 20. Nelle narici, di tanto, in tanto, mi ritorna l’odore, acre, della vecchia polvere da sparo. Poi giunse la scoperta delle misteriose migrazioni degli uccelli, le apparizioni improvvise di folletti selvatici, come la lepre, la deflagrazione repentina e inattesa provocata dalle ali di un volo di starne; attimo di sbigottimento e cuore al galoppo… “Brigata, si chiama brigata” sentii ripetere mio zio censurando la mia prima, approssimativa definizione di quel volo come “branco”, sussurrata, balbettata, solo dopo essermi ripreso dallo spavento e aver osservato il volto disteso e sorridente di mio nonno. Sono grato a quel burbero insegnante del primo alfabeto da imparare, l’alfabeto della Terra.

È grazie a lui se oggi, muovendomi in natura, riesco a riconoscere non soltanto diverse creature selvatiche, ma anche moltissime varietà di alberi e di arbusti e le tante bacche spontanee del bosco, come quelle del corniolo, della rosa canina, e i frutti dimenticati del sorbo, del giuggiolo, del corbezzolo, quest’ultimo un tributo arboreo alla nostra bandiera quando, in autunno, maturano i suoi frutti rossi incorniciati da brillanti foglie verdi e, contemporaneamente, da piccoli fiori candidi. Lezioni che si svolgevano in campagna, mentre lo seguivo a caccia, o durante le soste per mangiare avidamente un piatto di pasta scotta nell’acqua bollita a stento grazie a un fuoco acceso all’aperto oppure in una pentolaccia scaldata nel nero caminetto di una casetta rurale.

Seguirono i sogni evocati dalle pagine di Diana, la rivista dei cacciatori, sfogliata voracemente per capire di più di quel mondo, nascosto e parallelo a quello degli uomini, che si stava aprendo alle
mie avventure. E poi i libri di Hemingway e di Rigoni Stern. Quelle pulsioni insopprimibili che li portavano a solcare fiumi paludosi e sentieri di montagna alla ricerca dell’attimo di felicità regalato da un volo di anitre o dallo schianto delle ali di un urogallo. Sobrio, intenso, sofferto lo stile narrativo di Mario Rigoni Stern. Ammaliante, tracotante, misogino urlato al mondo il commento delle emozioni di caccia descritte da Hemingway. Nutrivo un ondivago sentimento di amore e di repulsione per l’autore de I quarantanove Racconti. Caccia, donne e alcool. Lo ripeteva spesso Ernest Hemingway, che la vita non sarebbe stata degna di essere vissuta senza la sua triade virile e libertina. “Confesso che ho goduto anche nell’uccidere”, affermò una volta lo scrittore americano scrivendo a una sbigottita amica, Janet Flanner, “e anche nel vedere uccidere”. Godimento nel dare e nell’osservare la morte. Mah!... Pensiero esplicito, ma difficile da comprendere. Amava tutte le forme di caccia e una volta affermò, senza pudore, forse solo per stupire i suoi ascoltatori, che è l’inseguimento di un uomo armato la forma di caccia che considerava più emozionante. La sua passione per la tauromachia è il sigillo della
dedizione alle sfide potenzialmente mortali. L’ammirazione viscerale per un amico, il torero Juan Belmonte Garcia, citato in alcune sue opere, è la conferma della sua predilezione per una vita densa di pericoli, intrisa di amore e di morte, perchè “l’uno si nutre dell’altra”, afferma Jung. Difficile conciliare lo spirito di queste confessioni con l’affresco mirabile e intenso che lo scrittore dipinge nelle pagine di Per chi suona la campana. Tentare di contraddire le pulsioni violente di un mostro sacro come Hemingway non è impresa semplice, ma le confessioni di molti cacciatori sono, per fortuna, di segno opposto.

Devianze e depravazioni albergano in molte anime e non mancano tra le schiere dei cacciatori. In genere, però, prevale quella pulsione cui si è già accennato e che è difficile definire con attributi morali: si caccia per istinto primordiale, per mantenere una parte di noi nel mondo animale, per obbedire alla programmazione genetica del nostro corpo, alla nostra dentatura di onnivori, per competere con l’astuzia di una creatura selvatica, ma quasi mai per il piacere di uccidere, altrimenti qual è la differenza tra un macellatore, un carnefice per sadica vocazione, e un cacciatore per ancestrale predisposizione? E se la caccia fosse solo godimento della morte perchè, in tanti, affermano che restituirebbero la vita all’animale abbattuto una volta completata la ricerca e l’uccisione della preda? Eppure quella triade maledetta garantì e amplificò il successo dell’autore de I quarantanove racconti, al punto tale da divenire, nel secolo scorso, un’icona, un modello da imitare, seppure entro i limiti del transfert onirico, per la gran parte del pubblico occidentale. Invidia ed emulazione per una vita dedicata alle donne e all’avventura, per l’irrisione, ostentata, verso modelli di vita piccolo-borghese, per la sfrontatezza delle sue dichiarazioni, ancor prima delle sue azioni. Un modello difficile da imitare per il contabile bancario, ma proprio per questo dotato della capacità di accendere voli fantastici nell’animo oppresso dell’uomo urbanizzato occidentale, costretto a ripetere ogni giorno gli stessi gesti, gli stessi percorsi nell’angusta gabbia della sua quotidianità.

Una cosa, tuttavia, è incontestabile: solo nella letteratura venatoria di Hemingway, di Rigoni Stern e di pochi altri autori, come Aldo Leopold, si respira una dimensione olistica, globale, esistenziale. Proprio ciò che manca, invece, alla maggior parte di coloro che si sono cimentati in racconti di caccia. Sfogliamone le pagine. Sono quasi sempre concentrati solamente sulla quantità di prede incarnierate, nella descrizione tecnica del colpo magistrale e della percentuale di fucilate andate a segno, nella minuziosa esposizione delle proprie prodezze e delle virtù cinegetiche del proprio cane. Il loro limite insormontabile è simile a quello dei patologici seguaci delle calcistiche tifoserie di campanile o di squadra: la vita è il gioco del pallone, il resto è un intervallo tra la partita più recente e la prossima da disputare. Così per la maggior parte degli scrittori di racconti di argomento venatorio il mondo è racchiuso, confinato, nella stagione di caccia, il resto è attesa e noia.

Dovremmo chiederci se abbia senso, in un mondo sovrappopolato, tecnologicamente esasperato e che, soprattutto, ci rifiuta, scrivere ancora di caccia senza condanne aprioristiche. La domanda è  aperta. Chi lo fa, oggi, sa di offrire il suo collo al cappio del boia che, ai nostri tempi, ha le sembianze di un’idra dalle mille teste: troppe sono le anime, falsamente gentili, che, avulse dal mondo naturale, scagliano anatemi ed emettono sentenze di morte per chi si ostina, ancora, a coltivare l’archetipo dell’uomo cacciatore. “Condanna la caccia chi della caccia non conosce nulla”, afferma Max Tornielli11 che, nella sua giovinezza, trasformò la sua ardente passione per la
caccia in una vera professione.

E certamente la spicciola letteratura venatoria che si dilunga nella descrizione dei “carnieri”, che espone immagini di cinghiali abbattuti cavalcati da personaggi abbigliati alla Rambo e sfoggia uno sguardo truce, che abusa di un linguaggio farcito di termini specialistici (senza spiegarne il significato ai profani) come guidate, consensi, ausiliari, usta, fregoni, volantini, non fa che allargare il solco che separa il mondo, minoritario, della caccia da quello, sempre più vasto, degli apprendisti vegani e dei sedicenti animalisti. Forse sono proprio questi ultimi gli interpreti del nuovo corso, i figli di un’epoca che si ammanta di abiti ipocritamente verginali, ma in cui tutti, volenti o nolenti, siamo immersi. Per costoro noi siamo i tardi epigoni di un’era che si è dissolta con i racconti di Hemingway, ma che ci ostiniamo a tenere, artificialmente, in vita. E non c’è neppure, intorno a noi, un novello Miguel de Cervantes che, come nel tramonto della cavalleria raccontata nel Don Chisciotte della Mancia, ne narri le gesta picaresche, il declino romantico, il lato umano e avvincente. Chi ha la caccia nel sangue, però, non si pente né si converte, neppure quando rinuncia al fucile e insegue il battito d’ali di un germano, la fuga di un capriolo, armato del suo solo sguardo o di una macchina fotografica. Torno, perciò, a tuffarmi nei ricordi, ma per non rischiare di cadere nei limiti della narrativa di genere, cerco di seguire uno schema diverso, che tenga conto dell’ambiente umano e culturale in cui si svolgono le azioni narrate e che dia spazio sia alle memorie dirette dei protagonisti sia ad alcune riflessioni sul tema. Ricordate Walden, ovvero la vita nei boschi, di Henry David Thoreau? Bene con una buona dose di umiltà e di evidente, enorme, distanza dalla valentìa del famoso scrittore e naturalista americano, dichiaro, esplicitamente, la mia convinta adesione a quello schema narrativo, un po’ racconto, un po’ analisi, un po’ resoconto giornalistico, un po’ mescolanza dell’uno e dell’altro, senza mai trascurare il palcoscenico naturale in cui si svolgono i fatti. Ricorrendo a una metafora potrei descrivere questo itinerario narrativo come un percorso che si snoda tra valli, colline, selve e guadi. Facile seguire i racconti sui sentieri di pianura, meno agevole proseguire sui monti e nelle macchie più intricate. È lì, però, che scopriamo le storie e le leggende meno note.

Dipano la trama delle stagioni, degli autunni e degli inverni, ma anche delle estati, quando si potevano ancora cacciare le quaglie e le tortore e non si doveva segnare nessun tesserino e neppure muoversi a slalom, tra giorni vietati e specie protette. Eccole, le rivedo le algide notti in palude, le estenuanti ricerche delle introvabili coturnici, le insonni vigilie dell’apertura, i viaggi interminabili verso ipotetici paradisi di caccia, la scoperta della maremma, anzi delle maremme, come sarebbe più giusto chiamarle, e poi l’incontro, il primo incontro con il nero, prepotente signore delle macchie, il cinghiale, un fantasma, allora, tanti anni fa, così vero, così elusivo, così selvaggio, così puzzolente rispetto al saporito e prolifico bastardo che oggi invade e devasta campi coltivati e orti e ha ormai raggiunto e superato tutti i confini regionali dello stivale.

Giulio, dei marchesi Patrizi Naro Montoro, fu lui a presentarmi alla oscura maestà del cinghiale. Nella tenuta di famiglia, al Sasso di Cerveteri, si cacciava ancora con il parziale ausilio dei cavalli. “Vuoi cacciare dal palchetto oppure seguirmi a cavallo?” Mi disse la prima volta che mi invitò a caccia. Non ebbi un attimo di esitazione. Sellammo due cavalli morelli con bardature tradizionali, briglia e bardella maremmane, e ci inoltrammo nella tenuta seguendo un sentiero che si snodava alle spalle dei cacciatori schierati lungo la linea delle poste. Era quasi un miraggio calarsi in uno sfondo che replicava i costumi e le tradizioni dei primi anni del secolo scorso. Lui
mi raccontò che una volta, i cinghiali abbattuti venivano trasportati, al rialto, affastellati su carri trainati da cavalli oppure servendosi della tecnica della fune: un capo legato saldamente alla coda di un cavallo e l’altra estremità serrata sul corpo dell’animale ucciso: uno spettacolo d’altri tempi che si può osservare, oggi, soltanto in un paio di storiche tenute tosco-laziali.

Ai tempi del Sasso eravamo già negli anni ottanta, quelli “da bere”, come recitava uno slogan alla moda.  I cavalli erano stati da tempo messi da parte, nelle campagne, estromessi dai trattori e da altri mezzi meccanici, e gli ultimi butteri, fino a qualche anno prima, venivano derisi da chi li considerava relitti antropologici e culturali della antica, secolare miseria agraria. “Compratevi un trattore” gridavano i ragazzini nelle strade di paese quando incrociavano un mandriano a cavallo. La modernità si era ormai appropriata di tutto, anticipava scoperte tecnologiche mirabolanti e inebriava menti e cuori dei fideisti nel futuro, le “magnifiche sorti e progressive”, per usare l’allegoria di una citazione leopardiana. I cinghiali del Sasso, per fortuna, ancora appartenevano anch’essi al passato ed erano dello stesso ceppo rustico e verace che, più tardi, avrei scoperto in altre tenute laziali e toscane e nelle cacce libere di maremma. Allora non c’era ancora la diffusione a macchia d’olio del meticcio nero in tutte le campagne e tantomeno si filmavano le sue scorribande notturne tra i cassonetti dei rifiuti nelle strade metropolitane, dove spesso, ad attendere questi animali, diventati ormai semi domestici, troviamo le moderne “gattare”, pronte a ingozzarli di croccantini e altre delizie del palato...

Erano di tutt’altro tenore quei primi incontri tra le macchie del
Sasso: cinghiali senza scialo, epifanie, evocazioni di creature misteriose, magiche, primordiali. Poi, alcuni anni dopo arrivarono le cacciarelle abituali, gli appuntamenti più prodighi di incontri con l’incontrastato re delle macchie.


Giorgio Salvatori



Tratto da IL PATTO COI LUPI
Innocenti Editore. Grosseto 2020
Euro 15:00

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