Il giorno dopo aver compiuto sedici anni avevo già l’appuntamento con il direttore del Tiro a Segno per il rilascio del certificato attestante la mia abilitazione all’uso delle armi da fuoco. Era la prima volta che vedevo quel signore e neanche mio padre lo conosceva, perché noi due sparavamo, spesso e volentieri, ma sempre in aperta campagna. Al poligono quella caldissima mattina di luglio eravamo soli, quindi il direttore era tutto per noi. Si comportava come chi, consapevole del suo sapere, volesse aiutare il giovane aspirante tiratore con la sua grande esperienza. Mio padre è sempre stato un uomo di poche parole. Tra noi due spesso comunicavamo soltanto con lo sguardo. Senza pronunciar parola mi fece capire di comportarmi seriamente e di non farla troppo lunga, perché sapevo che lui doveva andare a lavorare e che quindi non avevamo molto tempo. Dopo essermi sorbito una solenne lezione sulle norme di sicurezza, su come si maneggia un’arma e sul funzionamento della Beretta “Olimpia” calibro 22 L.R. che il direttore teneva in mano, finalmente me la consegnò, scarica, assieme ad una manciata di cartucce Fiocchi Standard. Chissà se immaginava che io ne possedevo una quasi identica? Avevo una Super Sport. Affidarmi quell’arma fu come mettere un violino nelle mani di Stradivari. A quei tempi, tra la Diana 4,5 e la Beretta 22, maneggiavo più una carabina che la penna a scuola. Con pochi abili movimenti riempii il caricatore da dieci e attesi con l’arma scarica e la canna rivolta verso il bersaglio il via dal mio istruttore di Tiro, che a quel punto credo si fosse già fatto una mezza idea con chi avesse a che fare.
“Metti il caricatore nella carabina, camera la cartuccia in canna come t’ho insegnato e mostrami cosa sai fare. Mi accontento se riesci a colpire il cerchio nero a cinquanta metri almeno cinque volte”. Scambiai un’occhiata con mio padre, che annuì con un sorriso malizioso. Primo tiro: un centro. Secondo, terzo, quarto e quinto come il primo. Guardai il direttore, che ormai aveva capito l’antifona, e gli dissi: “Cosa faccio? Continuo?” “Ma si, visto che ci sei” mi disse con un sorriso. Completai la serie da dieci colpi con altri cinque centri. L’Olimpia era veramente un’ottima arma, ma poco adatta alle mie “cacce vaganti”, perché ingombrante e pesante.
Ottenuto il mio bel Certificato e completata la burocrazia necessaria, compresa la firma da parte del genitore, inoltrai la domanda per richiedere il Porto d’Armi per uso caccia. Dopo un piacevole esame e una meno piacevole attesa di circa due mesi, verso la fine di ottobre ero finalmente un “Cacciatore” a tutti gli effetti. Frequentavo con impegno l’Istituto Tecnico Industriale e di andare a caccia nel bel mezzo della settimana non se ne parlava nemmeno. La domenica però non c’erano santi che tenevano, neanche la fidanzatina riusciva a portarmi al cinema. Con Ken, il mio pointer a guinzaglio, ero sempre pronto e sul sentiero di guerra. Insieme a mio padre partivamo al mattino e ritornavamo alla sera, a volte senza neanche mangiare. Ero capace di correre dietro ad una merla per due ore, finché non l’avevo a tiro del mio Breda Antares a lungo rinculo, con gli strozzatori esterni intercambiabili. Per quei tempi quel fucile era il massimo, come la Diana 27 e la Beretta 22, fu un dono natalizio del mio nonno paterno Sigismondo. Mio padre, Vice Capocaccia e tesoriere della “Cacciarella”, la squadra di caccia al cinghiale, aspettava il primo novembre com’io la fine della scuola. A me la caccia in battuta non piaceva molto (adesso invece, sono un canizzadipendente), poi quell’anno di cinghiali se ne vedevano pochi. Fresco di licenza avevo troppa smania di sparare, e al solo pensiero di lasciare a casa il cane e di stare fermo per una giornata intera, mi sentivo male. C’era un fatto però, da solo mio padre non mi lasciava andare e poi Ken non potevo certo portarlo con il motorino. Già a quei tempi per me era inconcepibile andare a caccia senza l’ausilio di almeno un cane. Io la domenica volevo andare a “penne”, mentre mio padre voleva andare al cinghiale, come fare? Presto detto, la soluzione era semplicissima. Andavamo a caccia insieme nella stessa zona, solo che io cacciavo con il cane nelle vicinanze della macchina, senza disturbare nessuno, mentre mio padre andava a Cacciarella dove lo portavano le “orme” dei cinghiali. Questa tecnica si dimostrò ottima e vincente per tutto il mese di novembre. Al mattino, quando ci ritrovavamo con la squadra vicino al fuoco, i tracciatori mi facevano rapporto. M’indicavano un trapasso di tordi e merli, magari dove avevano sentito cantare un fagiano, oppure se avevano visto una beccaccia. Non ero conosciuto per nome, ma come “il figlio di Gianni”. Ancora oggi, per gli amici del bar, sono e sarò sempre “Il figlio di Gianni”.
Quel giorno era il diciassette di dicembre, faceva un freddo polare e il vento di tramontana aveva trasformato il terreno in una lastra solida e compatta, dove un branco di cinghiali non avrebbe potuto lasciare una ben che minima traccia neanche saltellando. Quel mattino la squadra si accingeva a battere “alla cieca” un grosso corpo di macchia, con la speranza di trovarci almeno un animale, così tanto per potersi gustare una canizza. Mio padre & C. non avevano grosse pretese. Io invece mi ero riproposto di girovagare per una macchia nelle vicinanze, con la speranza di trovare una beccaccia o di tirare a qualche sassello. Tutte le volte, prima di separarci, mio padre mi ripeteva le solite raccomandazioni: ”Il pranzo lo lascio nella macchina aperta. Se ti viene fame, ricordati di lasciarmi almeno un boccone per quando ritorno. Se succede qualcosa chiama che qualcuno di sicuro ti sente, visto che anche noi siamo nelle vicinanze”. Io rispondevo sempre con la stessa frase: “Non ti preoccupare pa', ci vediamo stasera alla macchina.”
Non ho mai capito chi avesse più passione tra me e il cane. A volte sentivo il campanello del pointer a cento metri e più di distanza. Era un cane molto vivace e focoso. A due anni non potevo certo definirlo un campione, ma per le mie esigenze andava più che bene. Eravamo proprio una bella coppia, ci legava un rapporto quasi fraterno. Le merle non gliele abbattevo perché altrimenti le puntava di continuo, ma di tordi quel giorno ne presi diversi. In inverno, si sa, fa notte presto. Non ho mai avuto paura a cacciare da solo. Conoscendo quelle macchie come le mie tasche, non correvo certo il rischio di perdermi. Ma il pericolo è sempre in agguato, e specialmente in campagna, è bene essere molto prudenti. Non mi attardavo quasi mai. Mancava un’ora di luce prima che facesse buio quando io, stanco morto ma felice, con Ken che ancora correva come un cavallo (ma un po’ più a corto del mattino!!), rientravo camminando lungo una familiare carrareccia. Non avevo sentito né canizze né grandi sparatorie, così immaginai che la squadra non dovesse aver avuto molta fortuna. In macchina con mio padre ci saremmo raccontati tutta la giornata trascorsa nei minimi particolari e lui, puntualmente, avrebbe colto ogni occasione per riprendermi e per darmi nuovi, preziosi consigli.
Assorto nei miei pensieri mi resi conto, forse in ritardo, che non sentivo più il campanello del cane. Dove si era cacciato e soprattutto cosa stava facendo Ken? Sicuramente doveva aver trovato un animale, perché mancava da troppo tempo e il silenzio era assoluto. Dovevo cercarlo, ma non avevo la minima idea in quale direzione. Restai fermo ancora per qualche secondo con gli occhi rivolti verso l’alto con la speranza che se fosse frullato un animale sarebbe potuto venire nella mia direzione. Sentii invece uno strano rumore, insolito, come quello provocato da un grosso animale che si muove nel folto. Se era stato il cane a provocarlo come mai non avevo sentito il campanello? Il bubbolo trillò contemporaneamente ad un latrato di paura lanciato da Ken. Ripensandoci ora, chissà che battaglia avrei ingaggiato quel giorno se avessi avuto con me i tre setters che possiedo adesso, veri specialisti per quel tipo di caccia. Dal rumore capii che Ken si trovava alla mia destra ad una trentina di metri. Ero quasi certo di sapere cosa stava accadendo: il pointer doveva essersi imbattuto in uno dei maiali bradi che infestano la zona. Mio padre, nei suoi insegnamenti, mi aveva raccomandato di guardarmi bene dall' infastidirli, perché oltre ad essere molto irascibili, specialmente le femmine con i piccoli, sono anche molto pericolose sia per il cacciatore sia per i cani. Scaricai di corsa il Breda senza curarmi di far rumore, poi misi in canna una cartuccia a pallettoni, caricata da Peppino dell’Armeria Stella con la mitica D.N. a terzarole. Se il maiale si azzarda ad attaccare il mio “Fratello di Macchia” prima gli sparo e poi magari cercherò il padrone per accordarci sul risarcimento. A distanza di tanti anni, non ricordo se corsi in aiuto al cane anche gridando. Quello che ricordo bene invece è la scena che mi si presentò davanti quando raggiunsi la radura in mezzo al bosco. Il povero Ken, con la coda tra le gambe e il corto pelo ritto sulla schiena, era quasi circondato da un branco di cinghiali, che tra grossi e piccoli dovevano essere una decina. Purtroppo, dopo neanche due mesi di licenza, non avevo una grande esperienza pratica. Per puro caso, senza neanche accorgermene, ero arrivato controvento e in ottima posizione. Avrei potuto tranquillamente mettere altri colpi nell’automatico ed iniziare a sparare, magari per primo, al cinghiale più grosso mentre invece…….. Quello che mi preoccupò fu l’incolumità dell’ausiliare. Istintivamente alzai il fucile e sparai al cinghiale più vicino al cane, che guarda caso era una scrofetta di una quarantina di chili. A pochi metri da me mi guardava un solengo enorme! Dopo lo sparo tutto il branco partì veloce nel folto eclissandosi in un secondo. Il pointer, al quale non mancava certo aggressività e coraggio, cominciò ad azzannare il cinghiale morto, come a volersi vendicare dello spavento che si era preso.
Il primo pensiero che mi passò per la mente lo dedicai a mio padre: Chissà che faccia farà quando lo vedrà? A proposito, dovevo avvisarlo. Cominciai a chiamare con tutto il fiato che avevo in corpo ricevendo solo una flebile, lontanissima risposta. Nella speranza che avesse capito, mi misi ad aspettare ed a fare la guardia alla mia splendida preda. Ero al settimo cielo, pensai che negli anni a venire avrei abbattuto molti altri cinghiali, ma ero certo, quello che stavo accarezzando non l’ avrei mai più dimenticato. Qualcuno in lontananza mi chiamava allarmato. Erano i “bracchieri” che rientravano con i segugi sfiniti legati al guinzaglio. Gli risposi a gran voce che tutto andava bene e di venire a vedere cosa avevo preso. Alla vista del cinghiale il più anziano di loro, con una semplice frase, mi riempì d’orgoglio: “Buon sangue non mente. Sei proprio il figlio di Gianni. Adesso con calma raccontaci com’è andata. Noi, in venti, non abbiamo trovato niente. ”
Descrivere come avevo ucciso quel cinghiale fu come rivivere la scena in un sogno. Quando finalmente arrivò mio padre, mi trovò che dominavo la piazza. Per l’ennesima volta raccontai anche a lui come si era svolta l’azione, aggiungendo innumerevoli lodi al talento del grande Ken. Mi interruppe Alberto, il capocaccia soprannominato “Er Diavoletto”, che con un aria solenne disse: “Adesso preparati a ricevere il battesimo di sangue”. Conoscevo quel rito per averlo visto fare un sacco di volte, da quando, ancora bambino, seguivo mio padre tutte le volte che battevano una zona comoda. M’inginocchiai sereno per ricevere i segni sul viso tracciati dall’anziano capocaccia con il sangue ancora caldo del mio primo cinghiale. Guardai mio padre e per un attimo mi sembrò di vedere che avesse gli occhi lucidi, chissà forse gli dava fastidio il fumo del fuoco che ardeva nelle vicinanze, oppure gli bruciavano gli occhi perché era stanco?
Soltanto tanti anni dopo capii perché quel giorno i suoi occhi lacrimavano. Quando anche io provai le stesse emozioni il primo giorno che vidi mio figlio in mimetica con in spalla uno zainetto, alla cintura una vecchia cartucciera ed in volto il suo sorriso più bello. Mi disse: “Papà posso venire a caccia con te domani?”
Marco Benecchi