Se fossi rimasto a casa, nel letto, a dormire, un’avventura così non avrei potuto viverla!” Bella frase vero? La rammento molto spesso, specialmente quando mi capita di vivere un’azione di caccia davvero fantastica, di quelle da ricordare. E’ innegabile che abbandonare il tepore del letto e gli abbracci della bella moglie per andare in pieno inverno, magari particolarmente freddo, per boschi e montagne in compagnia di due–tre cani infreddoliti più di noi é un enorme sacrificio. Quel che è peggio, è che spesso si rientra con poco o nulla di fatto, facendoci rimpiangere di non essere rimasti in casa come il novanta per cento delle persone “sensate” a rigirarsi sotto le coperte. Ma a volte può capitare il miracolo, il fatto incredibile, come quando hai la fortuna di vivere avventure talmente meravigliose ed emozionanti che ti convincono di aver fatto la scelta giusta. Sono queste le emozioni che rimarranno marchiate a fuoco indelebilmente nella nostra mente e nel nostro cuore per tutta la vita.
Non essendo avvezzo a Bar, armerie-salotto, circoli e ritrovi vari, per conoscere i programmi futuri della squadra di cinghialai di cui faccio parte e per mettermi d’accordo con i miei compagni di caccia, devo ricorrere alle solite telefonate serali, al capocaccia o a qualche suo vice. Così, per sapere se avremmo cacciato e dove ci saremmo dovuti ritrovare chiamai Mauro, il mio amico del cuore, oltre che vice capocaccia della squadra. Mauro mi disse che avremmo deciso il da farsi soltanto dopo che i tracciatori fossero rientrati dal solito giro. Mi consigliò di governare con calma tutte le bestiole domestiche che ho e poi che ci saremmo ritrovati al Borgo della Farnesiana. M raccomandò di portare anche un bel pezzo di pizza, quella buona e bella calda che fanno al forno dello Zio! “Ci vediamo domattina verso le nove”, furono le sue ultime parole. Gli risposi di stare tranquillo e, se ci fossero state novità, ci saremmo risentiti per telefono. Indipendentemente dalle fortissime emozioni che provo tutte le volte che vado a caccia, nel quotidiano conduco una vita piuttosto comune, anzi, quasi monotona. Sveglia prestissimo (anche se non vado per boschi, alle 5,30 sono sempre in piedi!), colazione modestissima, solo una tazza di caffè e latte senza zucchero, controllo obbligatorio delle mail, dei miei Blog, sbirciatina al giardino per vedere se è tutto a posto e poi via, in campagna, nel mio piccolo appezzamento di terra ad accudire cani prima di recarmi al poligono o in officina a preparare carabine.
Fu più o meno quello che feci quel giorno, dopodiché, come promesso, mi recai anche al forno a prendere la pizza calda promessa e qualche panino imbottito, che sarebbero dovuti bastare fino a tarda serata. A dicembre inoltrato quasi tutti i campi erano allagati come paludi e quindi era impensabile spostarsi a piedi senza dei buoni e comodi scarponcini di marca. Poi inforcai lo zaino con dentro tutto l’occorrente per essere completamente autonomo fino a sera, presi il fodero contenente la fida carabina e dopo essermi chiuso la zip del mio giaccone fin sotto al mento m’incamminai verso il ritrovo. Tirava un vento gelido e nel cielo grossi e spessi nuvoloni plumbei minacciavano nuovamente pioggia, ma ci vuole ben altro per spaventarmi. Al Borgo trovai pochissimi amici, non più di sei o sette e, ad essere fortunati, se ne sarebbero potuti aggiungere altrettanti. Quattordici–quindici cacciatori, tra poste e canai, non sono certo il numero ideale per battere un grosso corpo di macchia, ma sufficienti per scovare e far correre qualche bel cinghiale.
Dopo anni e anni di magra, la “mia" Maremma laziale, quella dove sono nato, dove sono cresciuto e dove (spero il più tardi possibile) farò disperdere le mie ceneri, si è riempita di cinghiali. E’ bastato convertire un paio di monti strategici in Zone di Ripopolamento e Cattura, ed ecco che tutta la zona tra Roma e Montalto di Castro è ritornata ad essere la culla della caccia al cinghiale in battuta, la famosa cacciarella maremmana! Qualcuno potrà anche pensare che un territorio infestato dalla selvaggina nera è un male, io invece credo che il cinghiale sia davvero una risorsa socio–economica–venatoria di primaria importanza, da salvaguardare e gestire.
Al Borgo della Farnesiana, quando fummo tutti riuniti e ci contammo, non eravamo che poco più di una decina. Così decidemmo di battere una macchia piccola, comoda e soprattutto senza troppe pretese. Emiliano, un canaio tracciatore molto esperto, dalle impronte lasciate sul terreno giurò che doveva esserci almeno un cinghiale, ne era certo al cento per cento. Fummo tutti concordi nel dargli ragione e c’incamminammo abbastanza fiduciosi. La macchia che dovevamo battere l’ho soprannominata “Il Cinema”, perché tutte le poste vengono piazzate per i campi nelle larghe ed il bosco, per tutta la sua lunghezza, è messo un po’ in salita a specchio, proprio come se fosse uno schermo; se stai attento, non è affatto raro veder correre nel bosco o tra i cespugli i cinghiali, i cani e i battitori coi loro gilet ad alta visibilità. Mauro mi mise di posta al centro dello schieramento, da dove potevo godere di una visuale pressoché perfetta su tutta la zona. Ora però devo farvi una piccola confidenza… da qualche anno a questa parte sono diventato sgabellino-dipendente. Perdonatemi, ma è la verità. Sarà la vecchiaia che avanza, un pizzico di pigrizia o qualcos’altro, che so, ma sta di fatto che ora mi piace star comodo durante una battuta. Mi piace godermela tutta stando comodamente seduto con la carabina di traverso sulle gambe. Cosa posso farci? Così piazzai il mio sgabello in modo che fosse in piano, nascosi lo zaino dietro ad un cespuglio, poi estrassi dal fodero la mia nuova Benelli ARGO Compact Black, da me customizzata e ribattezzata“Maremma”, in calibro 30.06, equipaggiata con un collimatore a punto rosso montato su basetta fissa Fratelli Contessa. Inserii il caricatore da 5 colpi, camerai in canna una Ballistic Silvertip da 168 grani in canna e mi misi in attesa. Quando in lontananza udimmo in dialetto: “Semo a posto potete scioie!”, i bracchieri liberarono i cani. Mi aspettavo di sentir subito un bell’abbaio a fermo, seguito a ruota da una serrata canizza, quando invece niente! Solo qualche guaito solitario più svogliato che eccitato e la cosa mi sembrò alquanto strana. Dopo che ha piovuto, le tracce sul terreno sono tutte nitide, freschissime e soprattutto non mentono! Con la mia squadra di cinghialai si traccia (da noi si dice si assesta alla “tonda” ), nel senso che il tracciatore parte dal punto A e ritorna al punto A, contando, e magari verificando, con l’ausilio di un buon cane, le tracce in entrata e quelle in uscita. Non si scappa. Stando alle impronte rilevate da Emiliano nella macchia “Il cinema”, era entrato un cinghiale e non ne era più uscito: doveva pur essere da qualche parte. Cani e bracchieri erano pochi, ma alla fine ce la fecero a scovare quel benedetto solengo, a individuare la lestra dove s’era rifugiato. Sara, la capomuta del carissimo Sandro Papa non perdona. Gira che ti rigira era andata a trovarlo rimesso in un cespuglio fittissimo proprio a bordo macchia.
Praticamente l’intera bracca se l’era lasciato alle spalle subito dopo aver sciolto i cani. Come al solito la cagna si comportò da campionessa, da fuoriclasse, abbaiando a fermo in modo impeccabile a giusta distanza, ma il verro non aspettò certo l’arrivo dei cacciatori e partì subito, prendendo la direzione opposta da dove erano le poste.
A posto così! Fine dei giochi, game over, caccia chiusa! Ma Renzo, un esperto canaio detto “Delirio Tremens”, vide il cinghiale correre verso i campi aperti e, intuendo dalla direzione presa dove volesse andare, cominciò a gridare a voce e per radio dando delle indicazioni precise sulla strada presa dal fuggitivo. “Il cinghiale ha preso i campi aperti per andare verso la riserva. Se qualcuno riuscisse a prendere una macchina forse potrebbe intercettarlo!”. Molti anni addietro mi ero già esibito in un recupero così spettacolare, ma sono tentativi che riescono una sola volta nella vita. Non ci pensai nemmeno di partire all’inseguimento. Pensai che non c’era più nessuna possibilità d’impedire a quel demone irsuto di rifugiarsi nella zona di ripopolamento e cattura da cui nottetempo era uscito. Tra la macchia del “Cinema” e la riserva c’era più di un chilometro e mezzo di larga con pochissima vegetazione, ben difficilmente si sarebbe fermato prima di entrare nel divieto. Ma qualcuno non doveva pensarla come me, non voleva dargliela vinta così facilmente, perché alle mie spalle vidi arrivare una Panda con dentro Stefano e Paolo detto il Ghandi, che m’invitarono a salire. “Daje Ma, salta su che ci proviamo”... Salii in macchina al volo e puntammo decisi seguendo le indicazioni di Renzo e di altri cacciatori, che a volte seguivano il cinghiale a vista, altre si affidavano ai dati riportati sul display dei radio collari. Tra gli strilli e il gracchiare delle radioline decidemmo di non cercare di raggiungerlo bensì di tentare di anticiparlo. Eravamo in tre, quindi se fossimo riusciti ad arrivare al confine del divieto prima di lui, avremmo potuto cercare di aspettarlo al varco. Raggiungemmo un posto strategico, scendemmo dalla Panda, caricammo le armi e aguzzammo la vista per perlustrare i campi che avevamo davanti a noi. Fui io il primo a vederlo.. Lungo un frattale che divideva due campi arati di fresco percepii un movimento. Aveva rallentato parecchio l’andatura, la stanchezza sicuramente cominciava a farsi sentire. Era piuttosto lontano, almeno centocinquanta-centottanta metri, così sussurrai a Stefano e Paolo di piazzarsi a ventaglio ma di stare chini e nascosti, mentre io avrei tentato di tagliargli la strada. Come spesso accade tutte le volte che devo fare un tiro impegnativo, scattò subito il lato “tecnico-balistico” del cacciatore che mi fece chiedere: dove dovrò posizionare il benedetto red dot?
Il mio mirino olografico era perfettamente tarato a cinquanta metri ma non lo avevo mai verificato a cento o più metri. Non avevo assolutamente la minima idea di dove sarebbero andati a finire i miei colpi sparando da così lontano. Riuscii a ridurre la distanza a poco più di un centinaio di metri, poi decisi d’inginocchiarmi e di puntellare il gomito destro sulla gamba. Non ero fermissimo, ma sempre meglio che sparare a braccio libero. Misi il visibilissimo punto rosso leggermente sopra ed un po’avanti al muso del cinghiale, lo accompagnai ancora per qualche metro, poi strinsi il grilletto. Sul colpo l’animale sembrò che avesse inciampato ed aumentò l’andatura. Il secondo colpo lo sparai dandogli maggior anticipo. Non potete immaginare la mia felicità quando vidi il verro piegare le zampe anteriori e piantare il grifo in terra, eseguendo una capriola per poi rotolare in discesa nel fango. Dio, che recupero! Queste sono le azioni di caccia che preferisco, le più insolite, le più impreviste, insomma…le più belle! Stefano e il Ghandi, che alle mie spalle si erano goduti tutta la spettacolare scena, mi gridarono in dialetto: ”A Ma..hai visto che capitombolo ha fatto? Anche se con la prima l’avevi sbagliato”. Io avevo la testa da tutt’altra parte per rispondergli. Desideravo ardentemente vedere quel cinghiale da vicino per verificare l’effetto dei due colpi, perché, a differenza dei miei due compagni di merenda, ero piuttosto sicuro anche del primo colpo. Infatti lo trovai che aveva colpito il cinghiale un po’ basso e molto indietro, forse mortale ma non certo risolutivo. La seconda palla invece era entrata nel collo, fuoriuscendo dalla parte opposta, provocando un abbattimento istantaneo.
Ci congratulammo tra noi felici come bambini, poi scattò il totodistanza. Io sostenni di averlo abbattuto da almeno cento–centoventi metri, mentre Stefano e Paolo insistettero che non superavano i cento. Quello che è certo, è che quel memorabile giorno resterà nella storia, specialmente nel nostro ambiente paesano. Il cinghiale abbattuto era un bel maschio di una ottantina di chili, sicuramente sorpreso in pieno “verregio”, stando al suo odore terribile.
Ora, da cacciatore sincero e obiettivo quale sono, ci sarebbe da discutere parecchio. Se quello che ho, anzi che abbiamo fatto, è stato eticamente corretto o no. Perché il cinghiale era “quasi” riuscito a batterci in astuzia e quindi avrebbe potuto anche meritare la salvezza. Purtroppo la caccia è questa, punto e basta! E quel che conta durante una battuta di caccia collettiva è si il risultato finale, ma sempre nel rispetto del selvatico abbattuto e nel corretto trattamento della spoglia.
Marco Benecchi