Devo ammettere che l’idea del titolo non è stata proprio “farina del mio sacco!” Me l’ha fatta venire in mente un caro amico, dopo aver visto le foto che gli avevo mandato per wap dell’ultimo palancone che avevo abbattuto.
“Complimenti Marco, bellissimo animale, ma dove sei andato a caccia, a Chernobyl?”. Infatti, dopo aver verificato bene il muso di quel grosso daino, come potevo dagli torto? In tantissimi anni di caccia a palla ho visto molti capi di selvaggina con qualche tipo di malformazione di natura traumatica o genetica, ma non mi era mai capitato di vedere prima un animale col muso storto così, come se ci fosse nato, perché non presentava nessuna lesione apparente procuratagli da qualche incidente. Comunque, come mia abitudine, credo sia il caso di partire dall’inizio… da dove è cominciata la mia rocambolesca avventura: dal bellissimo, selvaggio, incontaminato litorale Maremmano, più precisamente quello che va da Tarquinia a Grosseto, rigoglioso di lentischio, di corbezzolo, di cerro, di ornello, di crognolo, di leccio, di olivo selvatico e di tanto altro ancora. Quelle sono le mie zone di caccia, che comprendono anche tutto il territorio a monte di Ansedonia, la rinomata meta turistica, famosa per i monti a picco sul mare, per le calette nascoste e per le splendide spiagge frequentate da molti personaggi famosi. Per noi cacciatori, Ansedonia è un territorio sacro perché vanta una consistente colonia di daini, provenienti dal vicino Parco della Feniglia e, chissà, forse qualcuno potrebbe essere addirittura arrivato dal lontano Parco della Maremma-Uccellina. In zone così urbanizzate, i daini devono essere costantemente monitorati per essere mantenuti entro limiti ben definiti, per diversi motivi legati sia all’ecosistema sia a problemi di sicurezza della viabilità.
Al Distretto di caccia di cui faccio parte, tutti gli anni viene concesso il permesso di abbattere alcuni capi in tutte le fasce di età, per contenere i branchi ed anche per mantenere in buona salute la specie, e molti cacciatori sono sempre felicissimi di contribuire con i loro interventi. Potermi confrontare con un selvatico così nobile e fiero è sempre un’esperienza meravigliosa e cacciare un maschio di daino adulto in inverno è decisamente una bellissima sfida, specialmente dopo un’intera stagione di disturbi vari tra tordaioli, cinghialai e soprattutto …lupi. L’incontro con quel palancone, decisamente insolito, lo ebbi quasi a fine stagione di caccia, più precisamente verso i primi giorni di un marzo talmente freddo da farmi desiderare con impazienza l’arrivo della primavera. Le temperature erano talmente rigide che parecchi amici selecontrollori evitavano persino di andare a caccia di daini, nonostante le prenotazioni stabilite dal nostro calendario venatorio interno. Tra questi c’era anche il mio amico Maurizio, anzi il mio compagno abituale di caccia che, senza mezzi termini, mi chiese che se avessi avuto voglia di sostituirlo nel suo turno ad Ansedonia, perché davvero non se la sentiva di prendere troppo freddo. Accettai volentieri, anche se, devo ammetterlo, capii benissimo il suo stato d’animo. In quei giorni, specialmente al mattino presto, oltre alla bassissima temperatura, anche un gelido vento di tramontana contribuiva a rendere molto spiacevole uscire. Ma ci vuole ben altro per impedirmi di dare la caccia a quello che ritengo il vero Re della Maremma, all’imponente dama dama! Così iniziarono i preparativi.
Sono sempre stato uno specialista della caccia a palla, assegnando ad ogni selvatico cacciabile la combinazione : arma, ottica, munizione che ritengo più adatte allo scopo. Ultimamente invece, un po’ per comodità, un po’ forse anche per pigrizia, sto usando una sola carabina per ogni forma di caccia praticabile in selezione, dal capriolo al cinghiale: la bella, onestissima carabina Bergara B 14 Green Hunter cal. 308 Winchester dotata di ottica 15 x 56 HD con reticolo illuminato e corredata di cartucce ricaricate con palla Nosler Ballistic Tip da 165 grani. Nello zaino misi il mio binocolo 8 x 42 HD, un paio guanti di pelle e i miei soliti due coltelli, qualche metro di robusta corda di nylon e un paio delle immancabili buste nere per rifiuti industriali. Per quanto concerneva l’attrezzatura primaria ero a posto cosi, poi passai all’abbigliamento. Avrei dovuto indossarlo comodo, caldissimo e soprattutto privo di inutili sporgenze e fronzoli che avrebbero potuto impigliarsi e far rumore durante la caccia. Con i prodotti Kalibro della Bighunter non mi sono mai trovato in difficoltà, sia in estate sia in pieno invero, compresi gli scarponcini Crispi Nevada che uso ormai da decenni. Sono leggeri, caldi, impermeabili, silenziosi, comodissimi da portare e molto resistenti all’uso. Quando pratico la caccia alla cerca e quella all’aspetto, riuscire a muovermi con scioltezza e naturalità è di fondamentale importanza. Trascinarmi dietro uno zaino stracolmo di oggetti e appesantirmi le tasche con accessori inutili, non è un bel modo di affrontare selvatici scaltri e diffidenti come i daini. Anche la scelta dell’orario è di primaria importanza. Conosco dei cacciatori che raggiungono la zona di caccia due–tre ore prima del sorgere del sole, con la convinzione di essere stati più furbi del selvatico che vogliono cacciare, senza sapere che l’uomo è già un pessimo predatore diurno, figuriamoci quando decide di cacciare di notte.
Il segreto del successo in questo genere di caccia è quello di riuscire ad arrivare sulla zona di caccia in quel breve arco di tempo che precede l’alba, possibilmente con il sole che sta sorgendo alle nostre spalle è auspicabile che il vento sia favorevole. La prima “binocolata” nei prati deve essere fatta - strumenti ottici permettendo, sia il cannocchiale montato sull’arma sia il binocolo - appena si riesce a distinguere la sagoma di un selvatico. MAI prima, perché potrebbe capitare che, mentre noi siamo convinti di guardare in un campo deserto, un numeroso branco di animali si è appena dileguato non visto. Bisogna fare “capolino” nelle zone di pastura con la massima cautela possibile e controllare meticolosamente tutto il perimetro, senza tralasciare nessun angolo od ombra sospetti.
Quel gelido mattino, appena scesi dalla macchina mi accorsi subito che avevo un bel problema da risolvere: il freddo! Era quasi insopportabile. Non tanto per la temperatura di “soli” 5–6 gradi sotto lo zero, quanto dal forte vento di tramontana che ti s’infilava ovunque. Per un attimo (ma uno soltanto!) quasi mi pentii di essere uscito, ma visto che oramai ero in ballo, avrei dovuto ballare. Così decisi di tentare una tecnica che avevo usato molto raramente in passato, avrei aspettato il sorgere del sole stando appostato … all’interno della macchina! Guidai fino al limitare del bosco poi, dopo aver parcheggiato strategicamente da dove avrei potuto avere un ottimo campo visivo sull’intera zona di caccia, rimasi comodo all’interno dell’abitacolo col binocolo in mano ma con la carabina carica già piazzata sul bipiede nel prato a pochi passi da me. All’alba puoi avvistare i daini che stanno rientrando dal pascolo notturno oppure (specialmente in inverno) che ne escono per godersi qualche minuto di tiepido sole. Non dovevo fare altro che aspettare al calduccio che ci fosse luce sufficienza per poter controllare la zona e verificare anche le ipotetiche linee di tiro. Chi usa una carabina dotata di bipiede tattico, deve scegliere sempre con cura dove appostarsi, perché una volta che avrà adagiato la carabina in terra dovrà avere la visuale libera, senza che ci siano ostacoli tra la volata dell’arma e il bersaglio. Dato che era da parecchio che non andavo a caccia in quella zona, ero un pochino preoccupato. Come ad est il cielo passò dal nero al cobalto portai il binocolo agli occhi e presi a guardarmi intorno. Diedi un rapidissimo controllo verso l’immenso prato seminato a grano che presidiavo, ma non vidi anima viva. Niente! Nessuna ombra sospetta o movimento insolito. Il fatto non mi stupì più di tanto, perché un vento simile doveva disturbare non solo gli uomini, ma anche gli animali e fu proprio pensare al vento che mi fece venire un idea, che mi riaccese fortissimo l’istinto predatorio. Se io fossi stato un selvatico e con un tempo come questo avessi avuto fame dove sarei dovuto andare a brucare? In un posto tranquillo certamente, ma soprattutto a ridosso dal vento. Decisi di farmi coraggio e di muovermi che il tempo stringeva. Lasciai lo zaino in macchina e presi soltanto il binocolo e la carabina, tirai al massimo la zip del mio giaccone, calzai perbene il berretto di lana ed iniziai la cerca. Quella era l’ora migliore, di solito la più proficua e l’alba era talmente bella, cristallina e carica di aspettative che decisi di ampliare la mia cerca fin dove fossi riuscito ad arrivare con lo sguardo, nonostante la scarsissima luminosità.
Fu così che in una rientranza del limitare del bosco avvistai cinque sagome decisamente familiari. Col binocolo non riuscivo ad identificare bene il loro sesso e la classe di età perchè li scorgevo appena, ma volli subito sapere a che distanza si trovassero. Lanciai l’impulso laser del Geovid e quello che apparve nel display non fu confortante: 240 metri! Pensai che erano troppi per tirare con quelle condizioni di luce, soprattutto per identificare bene il capo giusto da abbattere. Che fossero tutti daini adulti non avevo dubbi perché erano belli grossi di mole e molto simili tra loro, ma non seppi dire quali fossero M o oppure F. Mi resi conto che l’odiatissimo vento era diventato il mio migliore alleato. La brezza tirava dritta verso di me, tanto che se gli animali fossero stati in calore avrei potuto sentirne l’odore! Cercai di sfruttare la situazione per rubare qualche prezioso metro, di ridurre la distanza al massimo fin quando avessi potuto. Fu così che grazie al vento, all’oscurità e camminando chino ma veloce, riuscii a portarmi sui 150 metri, praticamente la distanza ideale. Nel frattempo tre dei cinque daini avevano preso a guardare verso la mia direzione, segno inequivocabile che dovevano aver avvertito qualcosa. Era il momento di tirare.
Mi sdraiai in terra sull’erba gelida di brina, diedi un click d’illuminazione al reticolo del l'ottica, inquadrai le sagome scure con pochi ingrandimenti per poi salire pian piano fino a 12-14. Attraverso le limpide lenti del cannocchiale individuai subito un palancone così non persi tempo a controllare cosa fossero anche gli altri, mi concentrai soltanto su di lui. Sinceramente non saprei dire se tra loro ci fosse stato un capo con il trofeo più grosso o più importante, ma a me andava benissimo così! Mirai il daino appena dietro la spalla, l’appoggio e la respirazione erano buoni, ed appena fui certo di essere perfettamente immobile sfiorai il delicato grilletto della Bergara. La scarsa luminosità, il rinculo, gli alti ingrandimenti del cannocchiale e la vampa di bocca resero impossibile conoscere l’esito della fucilata direttamente attraverso l’ottica, ma il sordo rumore che mi giunse di rimando mi fece ben sperare. Ricaricai l’arma, raccolsi il bossolo sparato, recuperai il binocolo che avevo adagiato a terra prima dello sparo e andai a vedere. Tanto ormai il danno era fatto. Il colpo era partito bene, il reticolo era fermo dove doveva essere quindi ero tranquillo.
Giunto a sessanta–settanta metri dal punto dove erano i daini al momento dello sparo vidi subito il ventre bianco del selvatico immobile e poco dopo ne potei ammirare tutto il resto. Il trofeo, seppur non esagerato, era regolare, bello e caratteristico per quelle zone. Mi feci i complimenti da solo come un ebete! Non tanto per il tiro quanto per la tenacia che avevo avuto andando a caccia con quel tempo e per la tecnica scelta. Bravo Marco! Ero felice di aver abbattuto un bel palancone con un colpo solo ma precisissimo. La potente Nosler Ballistic Tip da 165 grani lo aveva trapassato fulminandolo sul posto. Telefonai al Capo Distretto per comunicargli l’abbattimento ed oltre a ricevere i suoi più sinceri complimenti, mi ricordò di fotografare il daino e di mandare le foto all’ATC per il controllo immediato del capo. Giunto a casa mi adoperai alla separazione della mandibola e alla preparazione del trofeo in bianco, operazione questa che preferisco fare subito quando si tratta di lavorare su un grosso selvatico come un daino o un cervo.
Mi accorsi della malformazione del muso soltanto allora, quando procedetti alla scuoiatura del cranio. Il muso “curvava” verso sinistra in modo quasi naturale. Controllando sia la dentatura, sia il cranio intero non notai nessun trauma, nessuna vecchia lesione od altro che potesse aver provocato quel fenomeno. Chissà perché gli sia venuto il muso così, forse potrebbe esserci anche nato. Credo che non lo sapremo mai, anche quello rimarrà uno dei tanti misteri della natura, ma abbattere un daino che sembra davvero provenire dalle zone circostanti la triste centrale atomica di Chernobyl è stata una bella, insolita avventura da commentare a lungo con agli amici e da ricordare con piacere!
Marco Benecchi