La folgorazione avvenne in un lontano mattino di marzo, prima che facesse giorno. Era la prima volta che mettevo le gambe nella botte di un chiaro del padule di Fucecchio.
Cacciatore di collina, migratorista di capanno, allodolaio, fino ad allora mi contentavo di spadulare con un robusto setter gordon nelle lame di Bientina, alla ricerca di beccaccini e uccelli neri. Tre cacciatori in due botti affiancate. Uno di questi, Milio, padulano provetto, avvisò dell'arrivo di "marzoli" e al momento giusto lanciò un maschio e poi un'altro maschio, che con un ampio giro si
rimisero fra le anatre da richiamo, garrule e innamorate, seguiti da cinque ignari folletti bruni. Il primo colpo in acqua, dietro la conta impeccabile di Milio. Ai due uccelli che si alzarono seguì una piccola salva che li fece cadere a poca distanza dal gioco degli stampi.
Chi ha sparato al maschio? Chiese subito il padulano. Per far capire che il volantino che galleggiava a pancia all'aria non era stato certo lui a inquadrarlo. Un'onta che dovetti dividere con l'altro mio compagno di avventura, ma che scatenò in me, reduce dalla mia prima esperienza "al cesto" con ben cinque marzaiole (e un maschio di anatra germanata), una vera e propria febbre da padule. Nei giorni e nei mesi successivi tanto feci e tanto brigai che con un paio di amici alla stagione successiva resi attivo un cesto tirato su dal niente in un angolo del padule di Massaciuccoli. I risultati, data la poca esperienza, furono modesti, ma la passione aumentò a dismisura. Per tutto l'inverno fino alla fine di marzo, mi alzai alle due di notte per recuperare i richiami da un pollaio vicino, caricarli nella cinquecento con la balla degli stampi e trasferirmi all'imbarcadero, a trenta chilometri di distanza, caricare tutto sul barchino (un vecchio gozzo col quale in un pomeriggio di gelo quasi affondavo nel lago) e dopo un quarto d'ora di navigazione al buio fra canali e canaletti pressochè sconosciuti, ritrovarmi a sistemare il gioco in un mondo incantatato, uguale dalla notte dei tempi, nell'attesa di misteriose creature che si dileguavano tanto rapidamente così come all'improvviso si materializzavano da un niente di tenebra. Fu la svolta della mia vita. Lettore appassionato di Diana, mi trovai a interloquire di botte e di caccia agli acquatici con un cacciatore esperto e delizioso narratore toscano (Roberto Mercatelli), pensando di insegnargli qualcosa, tale era la mia ingenua presunzione giovanile.
Scrissi una notarella-racconto, che piacque - così mi disse - a quel grande personaggio che fu Enrico Vallecchi, mitico direttore di Diana, che mi scrisse una bellissioma lettera di complimenti e mi invitò di lì a poco a far parte della redazione. Toccavo il cielo con un dito e la giusta gavetta a cui fui sottoposto da Gherardini e Todeschini (con Fleury che bonariamente confutava le mie inesperienze venatorie e letterarie), mi sembrò il più dolce dei paradisi.
Acquatici? La passione aumentò e le esperienze anche, grazie all'amicizia dei Mercatelli (anche Stefano di lì a poco venne a far parte della redazione), che cacciavano con assiduità sul Trasimeno, dove a più riprese anch'io fui della partita. L'eden del Delta del Danubio fu il meraviglioso inizio di una serie infinita di viaggi alla ricerca dei becchi piatti, dall'Europa al Nord e al Sud dell'America, e beccaccini e oche e trampolieri vari. Del Danubio (con Giorgio Veller e Piero Pieroni) ricordo tutto, il cielo, l'acqua, la sconfinata palude incantata, la gente, le alzavole, i nugoli di folaghe, un rosario di fischioni turchi che mi vuotarono il serbatoio dell'automatico, uscendone indenni, salvo a cadere uno dopo l'altro dopo diversi secondi, per le cartucce a effetto ritardato, per l'umidità e il freddo. E i beccaccini irlandesi, con Massimo Roth, compagno di caccia anche a Cuba e a Manfredonia. E i codoni di Evros in Turchia.
E le oche di Magellano, i beccaccini, le anatre dai mille colori, gli uccelli più impensabili degli acquitrini della Pampa; le gigantesche canadesi, le migliaia di oche delle nevi (con contorno di orso nero) del Manitoba, le lombardelle le selvatiche e le zamperosee, infinite, dei laghi scozzesi, prigioniero insieme al caro Gino Fantin e altri simpatici schioppi della settimana no-fly, nie giorni della guerra del golfo. E i fischioni e le alzavole, i moriglioni e i codoni delle valli venete, ancora lì a testimoniare una cultura e una passione, retaggio della civiltà della Serenissima.
E i tanti cappotti, le tante padelle, di qua e di là per i continenti, ma soprattutto a casa nostra, dove a una giornata fantastica facevano corona diverse saccate di nebbia, bufere improduttive, cieli tersi e calma piatta, quando anche i pesci ti prendono in giro. E, ultimi ma non ultimi, i cacciatori, tanti, gli amici, altrettanti, i racconti, infiniti, nelle serate intorno al fuoco, nei casoni di valle, nelle baracche, nei sacchi a pelo, sui barconi, nelle primitive capanne dei pescatori, al freddo, alle intemperie, ma circondati da un calore che solo la fratellanza della caccia ti sa regalare. Il ricordo più bello? Quello più lontano, il più vicino nel cuore, però. Quei cinque "marzoli" che hanno il sapore della mia gioventù, il silenzio sonoro della palude, il tramontanino su collo, gli occhi che scrutano nel buio, nell'attesa di impareggiabili magie.
Nell'attesa degli infiniti stuoli di migranti che da qui a poco popoleranno di nuovo le nostre paludi, dedico queste mie modeste storie a tutti coloro che come me, rannicchiati in una botte, hanno trepidato in attesa di un attimo di beatitudine.
Giuliano Incerpi