“Grazie Dio per averci regalato anche oggi una splendida giornata di caccia”! E’ una bella frase che ripete spesso Sandro, un mio vecchio compagno di caccia e d’avventure, dopo che un’improvvisa crisi mistica l’ha trasformato da peccatore in santo! Ed un bel mattino d’autunno le condizioni affinché quella giornata fosse veramente bella c’erano tutte, se non fosse stato per un piccolo particolare…
Quando raggiungemmo la zona di caccia, un sole splendido ed una temperatura talmente mite da sembrare più estiva che autunnale (nonostante fosse il dieci di novembre!) ci accolse piacevolmente. Sopra alle nostre camicie di cotone leggero sia io sia Marco, il mio compagno di caccia, indossavamo soltanto il gilet alla “cacciatora” e nient’altro. La stagione venatoria in corso era alquanto singolare perché, forse anche a causa del caldo, di fagiani ne avevamo sempre trovati pochi, ma in compenso gli incontri erano stati costanti. Quel mattino avevo deciso di battere una collina veramente meravigliosa, ma che in molte altre occasioni mi aveva fatto maledire d’esserci stato. Una volta, ad esempio, un cinghiale ferì abbastanza seriamente uno dei miei setter.
Un’altra volta Jack, lo Jagd Terrier, partì a canizza alle otto del mattino e ritornò stremato che erano le quattordici passate. Per non parlare poi di qualche “inspiegabile” padella. Insomma, dove guardavo vedevo solo brutti ricordi, ma la bellezza del territorio e la ricchezza di selvaggina compensava ampiamente il tutto. Accesi i miei collari satellitari, aspettai che si “triangolassero” coi satelliti e poi li misi al collo a tre dei miei quattro cani: ai due setter giovani ed allo Jagd. La “vecchia” Kira è troppo affezionata al suo beeper personale. Sull’uso più o meno etico di certi accessori elettronici non mi voglio pronunciare, ma posso soltanto dirvi che dopo aver cacciato per un anno con i miei localizzatori BS - Bitrabi, non credo che sarei più in grado di farne a meno. E colgo l’occasione per ringraziare Sauro Bazzani di Gaggio Montano (BO) per averli progettati e costruiti. Caricai il mio Marocchi SRi con una corazzata RC Caccia “Piccione” del 7 in canna e due Winchester High Speed del 5 nel serbatoio. Ero pronto. Sono più di trent’anni che caccio i fagiani con i cani da ferma e tutte le volte lo faccio sempre con la stessa serietà e con lo stesso cipiglio. Sono del parere che a caccia “O ci si va per bene o non ci si va per niente” quindi, dato che conoscevo molto bene le abitudini dei selvatici che vivevano in quella zona, diedi a Marco delle disposizioni molto precise. Gli ordinai di starmi abbastanza vicino e di seguire attentamente il lavoro dei cani, ma anche di mantenersi sempre al pulito per avere una buona visuale di tiro. Per usare un linguaggio “da cinghialaio”, io avrei fatto il canaio – battitore, mentre Marco sarebbe stata l’unica posta. Secondo il mio parere, i fagiani “veri”, quelli nati e cresciuti liberi nei parchi e nei divieti, sono i selvatici da piuma più furbi e più scaltri in assoluto. Giorni addietro i miei setter avevano fermato, guidato, fermato e guidato ancora, un fagiano per tre – quattrocento metri e quando il furbissimo gallinaceo aveva finalmente deciso d’involarsi l’aveva fatto silenzioso e immancabilmente fuori tiro. Ma quel mattino eravamo in due ed io ero molto ottimista che sarei rimasto estasiato da un fragoroso frullo, che Marco sarebbe riuscito a tirare un paio di colpi e che i miei cani avrebbero avuto l’occasione d’imboccare qualcosa. Stavamo cacciando da circa un’ora e mezza quando Bianca e Drago agganciarono la pista giusta. Era una gioia per gli occhi e per il cuore vederli lavorare in coppia. Kira non sapevo dove fosse e Jack non lo vedevo e non lo sentivo già da un pezzo. Dopo diversi minuti di silenzio surreale, trillò il palmare BS che avevo in tasca. Drago era in ferma! Pochi secondi dopo mi arrivò la conferma “elettronica” che anche Bianca era in consenso. Non passò molto tempo che un forte battito d’ali ruppe la pace nel bosco. “Occhio Marco che arriva!” gridai. Il fagiano (non sapevo se era un maschio od una femmina perchè non aveva cantato quando s’era involato), per rientrare nel divieto avrebbe dovuto per forza attraversare il prato incolto dov’era appostato Marco. Ed infatti tre colpi in rapida successione mi confermarono che avevo previsto giusto. “L’hai fatto?” domandai “Macchè! Gran bella padella. Era un maschione con una coda lunga un metro!” rispose l’amico avvilito. “Su con la vita, sono cose che succedono. Se non è rientrato nella riserva lo ritroviamo di sicuro”, gli dissi per rassicurarlo. Poi chiamai a raccolta la truppa per fare il punto della situazione. Faceva un caldo infernale, ma i miei quattro Fratelli di Macchia pelosi erano bene allenati e smaniosi di riprendere la caccia. L’unico problema era che, secondo le indicazioni di Marco, il fagiano doveva essersi rifugiato in un canalone molto sporco ed impervio. Pazienza: “Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare”.
M’inoltrai nel fitto in silenzio, i miei cani non hanno certo bisogno d’essere incitati, anzi, spesso è il contrario, devo tenerli a freno se voglio mantenere un minimo di collegamento, così, mentre cercavo un varco tra rovi e marruche dove poter passare, sentii il primo abbaio a fermo. Era Jack, il mio piccolo, grandissimo, coraggiosissimo guerriero teutonico. Ebbene sì, lo ammetto, ho un debole per quel diavoletto nero tutto nervi, muscoli e zanne! Con un gesto fluido e naturale sostituii la cartuccia in canna e le altre due nel serbatoio con tre palle Gualandi. Ma guarda che svolta ha preso la cacciata! Sentendomi arrivare, lo Jagd si fece più aggressivo e subito udii uno sfrascare sulla sinistra. Eccolo! Pensai. Puntai il Benelli in quella direzione ed invece di veder apparire un bel cinghiale, mi vennero quasi addosso tre grosse istrici. A quel punto mi preoccupai parecchio, perché per bene che fosse andata, Jack ne avrebbe sicuramente azzannata almeno una, con tutte le conseguenze del caso. Mi preparai per afferrare al volo il famelico Terrier all’inseguimento dell’allegro terzetto, quando invece non lo sentii neanche più abbaiare. Cosa stava accadendo? Forse gli istrici dovevano essere quattro e Jack stava inseguendo l’altra dove non potevo sentirlo? Ma intuivo che qualcosa non quadrava. Come mai non lo sentiva più neanche Marco? Dove diavolo s’era cacciato Jack? No problem! Presi il palmare, selezionai il Canale UNO, quello memorizzato per Jack, pigiai il tasto POSIZIONE ed attesi i canonici dieci secondi. Quel che apparve nel display mi fece gelare il sangue. Il BS 101 mi confermava “con precisione millimetrica!” che il cane doveva trovarsi proprio dov’erano le istrici. Ma allora perché non le aveva inseguite? Perché non rispondeva al richiamo? Perché non lo sentivo abbaiare? Stava male? O addirittura peggio ancora? Chiamai Marco e tutti insieme, setter compresi, cominciammo a setacciare la zona. Fu il mio amico a trovare le buche nel terreno. Erano due rettangoli irregolari di non più di trenta centimetri per venti di lato. Che fossero degli ingressi di tane non c’era alcun dubbio, ma mi sembrò impossibile che da quelle asole buie potesse entrare od uscire un animale della mole di un istrice o addirittura quella di un Terrier adulto. A fugare ogni dubbio, che almeno avevamo trovato quel che stavamo cercando, furono i rumori che sentimmo giungere dall’interno. E non erano dei bei rumori. Laggiù, sotto terra, si stava compiendo una tragedia. Ai ringhi di Jack si sovrapponevano i versi gutturali dell’animale aggredito. La posta in gioco era alta: la vita. Chiamai Jack con quanto fiato avevo in gola, ma il mio richiamo invece di farlo uscire dalle buche, sortì l’effetto contrario. L’aggressivo cane, incoraggiato dalla mia presenza dovette sferrare l’attacco decisivo, perché dopo pochi secondi non sentimmo più niente. Io e Marco restammo ad aspettare immobili come due statue per un paio d’ore a ridosso di quel terreno scosceso. Eravamo preoccupati ed assetati, ma soprattutto indecisi sul daffare. Ma guarda cosa mi doveva capitare oggi, maledettissima collina! Cosa gli era preso al cane, non l’aveva mai fatto prima. Jack, anche se attacca tutto e tutti ed ha un odio smisurato per i gatti, i caprioli, i daini e i cinghiali non era mai entrato in una tana. Se c’è una tecnica di caccia che non ho mai praticato, e di cui non ho nessuna esperienza, è proprio la caccia ai nocivi in tana. So soltanto che è crudelissima. Da sottoterra non giungeva più nessun rumore ed io cominciavo a preoccuparmi ed a pensare al peggio, comunque ci vuole ben altro per farmi scoraggiare. Decisi di giocarmi subito la mia carta migliore: Francesco. Francesco è un caro amico specializzato in istrici, tassi, volpi e tane. E’ un vero esperto di Terrier e di tutto quello che riguarda l’arcano mondo “sotterraneo”. Gli telefonai che erano le dodici e lo trovai a tavola che aspettava di pranzare. Con poche parole gli esposi la situazione e Francesco mi chiese soltanto: “Da quanto tempo non senti più il cane?”. “Da tre ore”. “Allora non pranzo neanche! Vengo subito. Ti serve niente?”. “Portaci solo un paio di bottiglie d’acqua”. Con quel caldo, il sole a picco, l’ansia e la tensione, io e Marco ci stavamo disidratando. Dopo neanche un’ora che avevo chiuso il cellulare, avvistai in lontananza l’atletica e giovane figura di Francesco. Camminava piano ma deciso, curvo sotto il peso di un grosso e vecchissimo zaino militare. Come ci raggiunse capii subito che averlo chiamato era stata la decisione giusta. Il suo zaino sembrava il marsupio di Eta Beta. C’era di tutto. In men che non si dica estrasse ed “ammanicò” (mise il manico) due pale e due picconi, poi prese una roncola e cominciò a pulire un esile ramo in modo da farlo diventare come una lunga sonda. Sia io sia Marco eravamo molto affascinati da quel che faceva, evidentemente Francesco era nel suo mondo, mentre noi due degli intrusi. Francesco con estrema professionalità si chinò per esaminare le aperture nel terreno. Le annusò, controllò le tracce e con la testa mezzo dentro e mezzo fuori prese ad ascoltare facendoci segno ti non far rumore. “Ok!” Credo che il cane sia entrato nella buca di sinistra. Adesso venite quà, fate entrare questo frustino e muovetelo, io mi devo allontanare per ascoltare. Impugnai il lungo ramo e con poca difficoltà lo feci scorrere nell’angusto cunicolo di sinistra. Quando fu entrato per tutta la sua lunghezza più il mio braccio per intero, presi a muoverlo con forza. Francesco stava sempre con le orecchie attaccate al terreno come avevo visto fare agli indiani nei film Western! Ad un tratto esclamò: “Ok! Basta così. Dobbiamo scavare qui”. Felici di passare finalmente all’azione, tutti e tre prendemmo a scavare. Togliemmo trenta centimetri di terra, mezzo metro, un metro, la picconata decisiva la diede Marco e scoprimmo un tratto di cunicolo, costruito in modo così perfetto che non sembrava fatto da un animale. Ma quel che vedemmo non piacque a nessuno, c’era sangue dappertutto con manciate e manciate di “spingarde” (come noi chiamiamo gli aculei dell’istrice) sparsi per tutta la lunghezza. “Marco, non ti preoccupare del sangue, non è detto che sia “tutto” di Jack. Sicuramente lo Jagd deve averla attaccata da dietro, mentre l’inseguiva. E per ucciderla doveva prima farsi strada tra gli aculei. Tutto sommato è un buon segno”. Forse lo sarà stato per Francesco, non certo per il sottoscritto! Dopo aver allargato lo scavo ripetemmo la stessa operazione di prima. Io sempre con il bastone – sonda infilato lungo il nuovo cunicolo, nella direzione che sospettavamo avessero preso gli animali, e Francesco e Marco a fare i “Pellerossa” con le orecchie attaccate al terreno. Francesco ci confidò che di solito durante quelle operazioni si seguono come indicazioni gli abbai del cane, ma nel nostro caso dovevamo fare affidamento al rumore provocato dalla nostra sonda di legno. Anche il fatto che il cane non lo sentivamo, non era poi troppo preoccupante. Potevano essere tanti i motivi perché Jack stava zitto.
Intanto il tempo passava veloce ed io cercavo di abituarmi all’idea di aver perso per sempre un buon cane al quale ero molto affezionato e che in tre anni di caccia mi aveva dato fin troppe soddisfazioni. “Dobbiamo riprendere a scavare in questo punto”, sentenziò il “capocantiere!” E le pale ed i picconi tornarono in azione nel punto esatto indicatoci da Francesco. Per fortuna non trovammo grosse pietre e/o sabbia, ma la siccità aveva fatto diventare il terreno duro come il marmo. Le nostre mani erano piene di piaghe e di vesciche, ma continuammo a scavare ininterrottamente. Quando mi attaccai all’ultima bottiglia d’acqua e vidi che ce n’era rimasta meno della metà, non bevvi. Decisi di lasciarla a Jack. Semmai fossimo riuscito a recuperarlo, sicuramente ne avrebbe avuto più bisogno lui di noi. Era il turno di Marco a scavare quando esclamò. “Il terreno suona a vuoto, forse ci siamo”. “Si! Dal puzzo dovremmo esserci!”, rispose Francesco facendosi avanti. Spettava a lui l’onore di togliere l’ultimo strato di terra. Eravamo arrivati proprio sopra al “fornello”, la tana vera e propria dell’istrice. Una piccola cupola a forma di forno dove quel simpatico animaletto era nato, era vissuto e dove aveva trovato una morte orrenda, ucciso da un nemico spietato che pur di seguire il suo istinto omicida aveva messo a repentaglio la sua stessa vita. Tante volte mi sono chiesto come mai certi cani sono così aggressivi e crudeli. Laszlo, il mio carissimo amico ungherese, patron dell’agenzia di viaggi venatori Lesli Club, grande appassionato di Jagd Terrier una volta mi ha detto: “Agli Jagd interessa soltanto uccidere, nient’altro”. E sono molto bravi ad uccidere, perché sono dei veri killer professionisti, che conoscono alla perfezione i punti deboli delle loro prede e sanno sfruttarli consapevoli della loro forza. La tana sembrava il set di un film dell’orrore, sangue, aculei e interiora sparsi dappertutto. L’istrice era morta ed in parte era stata anche divorata sull’ingresso del cunicolo ostruendolo, e imprigionando così anche il suo carnefice in quello spazio angusto.
Ma anche Jack non stava messo bene, aveva la testa ed il corpo completamente trafitti dagli aculei. Persino in quelle condizioni pietose incuteva paura soltanto a guardarlo. Francesco non si fidò a prenderlo per paura d’essere morso. Gli Jagd non percepiscono né il dolore né conoscono la paura, ma Jack aveva perso molto sangue ed aveva talmente tante spingarde piantate addosso da impedirgli quasi di muoversi. Dopo averlo riportato in superficie, rimasi ancora una volta sorpreso dalla grandissima esperienza e dall’abilità del giovane (ventidue anni!) Francesco. Con estrema cautela sfilò gli aculei uno ad uno e man mano che lo faceva tamponava le ferite con la terra. Controllò la gola, il palato, gli occhi ed anche se il cane aveva qualche ferita al petto nella zona cardiaca. Erano ormai le sedici passate, ma grazie a Dio (e soprattutto grazie a Francesco!) si era risolto tutto bene. Ci credereste se vi dicessi che per riportare Jack alla macchina mi toccò legarlo al guinzaglio? Che dopo che gli avevamo medicato le ferite e che lo avevamo rifocillato con acqua e carezze, voleva infilarsi di nuovo nel cunicoli alla ricerca di una nuova preda……….?
Marco Benecchi