Si definisce stress l’insieme di sollecitazioni applicate ad una struttura osteoarticolare. Una dose fisiologica di stress è necessaria per sollecitare e mantenere il trofismo di una struttura; come è noto, l’immobilità forzata determina una ipotrofia dei tessuti immobilizzati, come ben sa chiunque abbia subito una ingessatura prolungata. Ciò di cui ci rendiamo conto è la ipotrofia da disuso delle masse muscolari, ma meccanismi analoghi si verificano anche a carico delle ossa (la cosiddetta osteoporosi transitoria da immobilizzazione) e delle strutture capsulo-legamentose.
Una dose eccessiva di stress biomeccanico, percontro, determina danni da eccessiva sollecitazione (paradigmatici i danni osteoarticolari dei ginnasti), che arrivano alla insorgenza di fratture “occulte”, ossia non visibili radiograficamente, delle limitanti articolari delle ossa. Si tratta di lesioni da sollecitazione protratta delle lamelle spongiose dell’osso con microemorragie intraspongiose: il dolore è simile a quello delle fratture. Questi danni, normalmente transitori, se trascurati comportano delle significative modificazioni del trofismo, e soprattutto della vascolarizzazione del segmento osseo coinvolto.
Nell’esercizio venatorio lo stress è attivo nella caccia vagante in terreno vario ed accidentato, in particolare relativamente agli arti inferiori; passivo, da posizione forzatamente immobile, e con maggiore interessamento del rachide e delle articolazioni coxo-femorali, nella caccia di posta.
E’ necessario fare qualche considerazione sui fattori “predisponenti” a tali patologie. Purtroppo l’età media dei cacciatori è nettamente incrementata: il risultato di una cultura pseudo-ecologista (o come li definisco io, “ecologisti da salotto”, ossia persone che non hanno la più pallida idea della campagna e della natura in genere) è stato un progressivo decremento dei praticanti nelle fasce di età più basse (ed un generoso accanimento dei più anziani). Ne consegue una maggiore facilità di insorgenza di sintomi muscoloscheletrici, o, più spesso, di slatentizzazione/accentuazione di sintomi già esistenti e dovuti a parafisiologici fenomeni di degenerazione artosica (non bisogna sentirsi sviliti: i fenomeni artrosici iniziano già nella terza decade di vita!). A questo aggiungiamo un altro fattore, ossia la estrema saltuarietà dell’esercizio venatorio. In media, la caccia viene praticata per 3-4 mesi l’anno, tendenzialmente la domenica, più raramente un altro giorno infrasettimanale. Se il cacciatore non pratica altre attività fisiche significative (ossia esclusa la passeggiata con il cane e lo shopping con la compagna), il risultato si vede soprattutto all’inizio della stagione di caccia, con simpatici sintomi quali fiato corto ed affanno, facilità alle distorsioni, stanchezza notevole a fine giornata e soprattutto, il giorno successivo, artralgia diffusa, ossia “sensazione di ossa rotte”. Prevenire tutto questo significa godere al massimo della nostra passione, e la prevenzione passa da un costante esercizio fisico preparatorio e di mantenimento nonché da abitudini di vita (mi riferisco in particolare alle abitudini alimentari) idonee ad evitarci problemi di sovrappeso e/o carenze di minerali preziosi per il nostro metabolismo scheletrico. Vedremo in seguito quali attività sono ideali e cosa evitare.
Ci occuperemo inoltre di alcune patologie specifiche in particolare delle cacce di appostamento.
Casimiro Simonetti