Ci sono posti, molti in Italia, dove il cinghiale è celebrato come un re. La sua carne deliziosa, abbondante oramai in tutto lo stivale, condivisa in lunghe tavolate, diviene il leit motiv di allegre feste paesane più o meno importanti, capaci di collegare i cittadini ai sapori tipici del proprio territorio ma anche di richiamare gente dai borghi vicini e turisti da ogni parte del mondo.
Lo sa bene un uomo che della valorizzazione della cultura contadina e del cibo ne ha fatto con successo la propria missione di vita: il patron di Terra Madre e di Slow Food Carlo Petrini, a ragione una delle icone italiane, acclamato, venerato e preso d'esempio in ogni angolo del mondo, alla pari ormai con Enzo Ferrari, Gianni Agnelli, Benetton, Versace. E' sua l'idea dei mercati locali a chilometro zero, suo il merito di aver incentivato una proposta turistica basata sulla riscoperta dei sapori locali, forza e orgoglio della nostra nazione all'estero, con conseguenze benefiche per il comparto turistico, che ha potuto mettere in moto un circuito di servizi legati alla valorizzazione dei prodotti delle nostre terre, fondamentali per assicurare la sopravvivenza di un patrimonio culturale immenso, quello dell'agro-alimentare, oggi fiore all'occhiello di un business sempre più grande, che va dagli agriturismi ai ristoranti fino alle piccole botteghe paesane. Altro che spiagge e hotel per cani e gatti!
Sempre di Petrini è un bell'articolo pubblicato giorni fa da Repubblica su uno degli angoli più caratteristici della Toscana: la Val di Cornia. Un posto incantevole dove ogni anno da immemore tempo si ripetono con successo celebrazioni storiche, medievali, come quelle organizzate a Suvereto (LI). Al centro della festa, manco a dirlo c'è una delle più famose e apprezzate sagre del cinghiale d'Italia, in corso in questi giorni fino al 12 dicembre. In questo spicchio di Toscana tra mare, collina e montagna, dove si alternano boschi, macchia mediterranea, uliveti e vigneti di pregio, dove la caccia è molto diffusa come mille altre attività tipiche di una cultura prettamente rurale, permane una straordinaria ricchezza gastronomica incentrata su piatti che, per Petrini, sono figlie di una creatività casalinga che “a tratti ha del geniale”.
Questa sagra - scrive Petrini - si “è molto radicata a partire dalla fine degli anni '60, come un orgoglioso modo di rappresentare il proprio territorio”; e ancora: “la Val di Cornia è la dimostrazione che le risorse della natura e dell'agricoltura possono essere strategiche per una rinascita, valorizzando quei significati abbandonati che popolano insieme a noi i luoghi in cui viviamo e che in passato abbiamo preferito dimenticare in nome di una modernità plastica che purtroppo ci ha deluso troppe volte”.
La caccia in questo prezioso tessuto sociale fatto di relazioni e di saperi tramandati, capaci di resistere e di rifuggire ai tentacoli del cosiddetto sistema globale, è, anche e soprattutto per la sua importanza nel gestire le popolazioni faunistiche, una risorsa da far conoscere ai più giovani che spesso non sanno nemmeno come siano fatti gli animali (molti bambini non hanno mai visto nemmeno una gallina viva) e ai cittadini metropolitani che passano la propria esistenza rinchiusi in case e uffici o a calpestare suoli d'asfalto, salvo sporadiche vacanze da trascorrere in luoghi ameni dove la natura è sottoposta al business turistico.
Come si fa con le fattorie didattiche, quindi, che riportano queste persone a contatto con valori ormai perduti, restituendo loro una coscienza fondamentale per capire i processi produttivi del cibo, dalla terra al proprio piatto, così le sagre del cinghiale restituiscono alla mente, al cuore e al palato, il gusto di antichi sapori dimenticati. Talvolta riescono persino a far capire che la caccia è sottoposta alle risorse della terra e da esse regolata, visto che il cacciatore interviene non solo laddove le popolazioni non corrono alcun rischio ma anche nel momento in cui è più utile e necessario.
Cinzia Funcis