La protesta dei sindaci delle comunità montane, piccola voce sommessa nel clima da stadio creatosi attorno alle vicende del premier, probabilmente rimarrà inascoltata.
A chi interessa la sopravvivenza di 4200 piccoli comuni dispersi su Alpi e Appennini, che spesso contano meno di cento anime? Forse a nessuno e men che meno alla politica, che quei borghi, pieni di storia e d'incanto, li ha letteralmente abbandonati, tagliando drasticamente le risorse elargite in passato per fermare il loro spopolamento. Se nel 2002 le comunità montane percepivano complessivamente un finanziamento pari 170 milioni di euro, oggi, dopo un anno di azzeramento totale, ne hanno a disposizione solo 16, che saranno elargiti una tantum nel 2011. Il che significa per un paesino di nemmeno cento abitanti qualcosa come 88 euro all'anno (è il caso di Ribordone, località del 1300 che conta 77 abitanti). Un'elemosina, che non basterà a coprire nemmeno le più elementari spese di manutenzione. E' per questo che per protesta quei soldi, quando li riceveranno, li restituiranno o li daranno in beneficienza.
E così tra poco alle migliaia di persone che ancora vivono tra mille difficoltà nelle tantissime alture di questo paese, non resterà che adeguarsi al progresso e all'avanzare del cemento, che ormai ricopre con il suo manto irreversibile e grigio quelle che un tempo erano pianure floride e coltivate. Ma questi piccoli villaggi, e lo abbiamo visto recentemente anche su questo portale quando abbiamo dato voce ad un comitato di cittadini schierati contro la costruzione di un'enorme impianto per l'energia eolica che avrebbe modificato un paesaggio da cartolina e compromesso per sempre la fruibilità dell'ambiente, sono veri presidi dell'umanità a difesa del territorio, capaci di allontanare speculazioni orientate spesso solo al raggiungimento del massimo profitto. L'abbandono di questi luoghi, dove le persone hanno ancora un rapporto diretto con la terra e vivono dei suoi frutti, è una sconfitta per tutti e comporta la progressiva scomparsa di saperi tramandati e tradizioni millenarie, come quelle che ancora oggi guidano la produzione di eccellenze dell'agro-alimentare italiano (formaggi, miele, carne di qualità, ecc.). Ma la posta in gioco è ancora più alta: è proprio sulla montagna infatti che sono gestiti servizi chiave per la qualità della vita anche in pianura. Pensiamo alla qualità delle acque, alla produzione di energia, alla sicurezza idrogeologica ma anche semplicemente all'importanza dell'ossigeno prodotto dal manto forestale sopra le nostre teste.
Per Carlo Petrini, che ne ha scritto proprio in questi giorni su Repubblica, questo disinteresse non è altro che “l'ennesimo fendente inferto al corpo del Paese, uno degli ultimi, ma uno dei tanti. Parlo di corpo – spiega Petrini -: la terra, i fiumi, le montagne, i campi, le colline. Un corpo vivo che meriterebbe tutto il rispetto possibile per come ci ospita, per come ci nutre, per come ci ha sempre riempito di orgoglio e circondato di bellezza”.
Molto è già perduto e lo sanno bene i cacciatori che frequentano abitualmente le campagne in lungo e in largo e che in molte parti d'Italia ettaro dopo ettaro hanno visto scomparire i boschi frequentati in gioventù, quando la selvaggina abbondava e non si parlava né di ripopolamenti, né di emergenze ungulati (oggi troppi anche perchè troppo ridotto il loro habitat naturale) . Chi ha qualche anno sulle spalle – scrive un amareggiato Petrini – sa che l'Italia bella com'era non lo è più, e che “sta diventando sempre più brutta”.
Eccola allora la cultura rurale di cui i nostri politicanti dovrebbero accorgersi, prima che sia troppo tardi e che si perda del tutto.
Ci vogliono forse incentivi (non necessariamente finanziari) mirati a sollevare e sostenere comparti economici dalle immense possibilità di sviluppo, soprattutto quelle legate al turismo, che è e rimane, con buona pace del Ministro Brambilla e dei suoi spot pro cani, la vera occasione mancata di questo Paese. Bisogna puntare sulla qualità della vita, dei servizi, dell'accoglienza, occorre anche dare rilevanza al lavoro di chi questi posti li vive e li difende, nonostante le difficoltà. Sono ancora loro, insieme ai cacciatori e a pochi ambientalisti a prendersi cura fattivamente dell'ambiente, come facevano una volta. Questa gente, ricorda Petrini, “oltre a coltivare i propri campi puliva i fossi e i boschi, sorvegliava gli argini dei fiumi, teneva in ordine le zone rurali preservandole da dissesti idrogeologici e anche da tante brutture”.
C.F.