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dic3 03/12/2013
Le grandi rivoluzioni industriali avviate nell'ultimo secolo e mezzo hanno sicuramente stravolto il nostro modo di vivere, portando con sé una quantità di beni (senza per forza fossilizzarsi sugli elettrodomestici, possiamo pensare ai prodotti farmaceutici che hanno permesso di debellare o rendere curabili numerose patologie) grazie ai quali il nostro quotidiano è stato nettamente – e spesso drammaticamente – semplificato. Parallelamente a questo, l'adozione di un'economia fondata sull'etica del consumo ha dato origine a una presa di coscienza di numerosi problemi ambientali su cui vecchie e nuove generazioni di studenti, attivisti e imprenditori si stanno misurando: di qui la nascita di forme di energia alternative, l'etica del riciclo, la gestione consapevole delle risorse forestali ed ittiche e via di seguito. Le problematiche sono molte e la cerniera di tempo utile entro cui le soluzioni dovrebbero essere messe in atto sempre più risicata, ma è difficile sensibilizzare il mondo politico su questo argomento, pressato com'è dalla inarrestabile espansione delle multinazionali.
Tutti conosciamo la storia, certo; quello che però pochi si chiedono è: fino a che punto, nel sistema sociale in cui ci troviamo, si può vivere con un basso impatto sul pianeta (posto che l'espressione impatto zero è abbastanza utopistica, e a noi le utopie restano scomode)? Come si può tener fede al principio di sostenibilità e alla nuova coscienza ecologica, affinché queste non rimangano solo degli status symbol ma si concretizzino in una filosofia praticabile?
Pensiamoci: quanto conosciamo veramente le cose che acquistiamo e poi utilizziamo? Per ogni auto, frigorifero, tablet o paio di scarpe in circolazione, siamo forse in grado di ricostruirne i processi di produttivi? Esistono le etichette, certo, ma è bene tenere presente che, ad esempio, un oggetto made in Italy può non essere stato interamente assemblato nel nostro paese: l'apposizione del marchio della casa produttrice è solo l'ultimo step di una lunga catena che, spesso, comincia in paesi dove la manodopera costa meno, salvo poi fare ritorno nell'azienda madre per gli ultimi processi di rifinitura. Il tragitto che la realizzazione di un certo bene di consumo disegna, quindi, resta a noi quasi del tutto sconosciuto, a meno che non intendiamo documentarci con accuratezza.
Ogni auto, ogni frigorifero, ogni tablet, oggetto di produzioni seriali e massificate, ha un impatto molto violento sul pianeta, non tanto per le materie di cui sono composti (che pure, specialmente nel caso di certe componenti delle apparecchiature elettroniche), quanto per il “costo”, in termini di dispendio di risorse ed energia, necessario al suo assemblaggio; il che, per tutte le coscienze che si definiscono sensibili alla causa ambientalista, dovrebbe comportare il loro immediato abbandono. Eppure – dato che non vogliamo scivolare nelle utopie – non possiamo certo astenerci dall'uso del computer, dai detersivi per i piatti o da qualsiasi prodotto per l'igiene del corpo (poiché non tutti scelgono di affidarsi alle soluzioni interamente biodegradabili, di norma più costose rispetto ad altre versioni in vendita nei supermercati): sono tutte cose che fanno parte di noi, della nostra civiltà e della nostra cultura materiale; in certi casi ci guadagniamo addirittura da vivere per mezzo di esse.
Esiste una precisa linea di confine che separa l'intento, la buona intenzione, dalla necessità. La nostra vita è attraversata da una serie di “bisogni” non certo fisiologici, ma correlati alle attività che svolgiamo. Vogliamo fare una meritata vacanza a migliaia di chilometri da casa nostra; dobbiamo presenziare ad un convegno importantissimo; abbiamo intenzione di andare a trovare certi amici o parenti che abitano lontano: per soddisfare questi accidenti abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto, assemblato in un altro paese e alimentato da una fonte di energia che aspiriamo da altre terre, spesso lontane, per le quali si sono combattute guerre che hanno portato via la casa, o forse la vita, a miserabili sconosciuti fuori dalla nostra giurisdizione. Certo, esistono gli ibridi, il metano, le macchine elettriche, ma sono realtà ancora marginali e decisamente meno abbordabili dal punto di vista economico. Nessuno si sognerebbe di percorrere più di dieci o venti chilometri in biciletta, né di tornare al cavallo e alla carrozza. Si potrebbe allungare a dismisura una casistica che, considerata nel suo insieme, racconta la storia del tenore di vita dell'uomo moderno che si è assestato su valori tanto “confortevoli” quanto insostenibili, di cui, intendiamoci, lo stesso uomo moderno è perfettamente consapevole e si batte per una loro riduzione, ma che non possono essere abbattuti in maniera significativa senza riconsiderare al ribasso la maggior parte delle nostre abitudini.
Ma qual è il destino delle cose che, per necessità ma anche per semplice moda, gettiamo via? Non tanto gli oggetti di carta o plastica, il cui ciclo di vita è maggiormente tracciabile e conosciuto; ci riferiamo alla maggior parte dei “rifiuti di grossa taglia”, per esempio i RAEE (Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), che depositiamo nelle cosiddette isole ecologiche. Esistono numerosi villaggi in Cina che sono vere e proprie discariche abitate, dove si raccolgono tonnellate di spazzatura tecnologica proveniente dal mondo occidentale (di cui gli Stati Uniti, che non a caso hanno declinato la ratificazione della Convenzione di Basilea per il divieto di esportazione dei rifiuti tossici, sono tra i maggiori produttori al mondo), con la complicità dei governi locali abbondantemente corrotti: operai mal salariati si occupano dello smistamento e del recupero di tutte le componenti riutilizzabili, in larga parte metalli preziosi, esposti tutto il giorno a sostanze inquinanti con conseguenze inimmaginabili per la loro salute e per gli ecosistemi circostanti, talmente degradati che a Guiyu, uno dei casi più noti, non si trova più acqua potabile.
Tutto questo, ovviamente, è sconosciuto al consumatore medio, e così deve restare. Il punto è che non possiamo semplicemente prendere atto che esiste un problema generico, di competenza politica: occorre considerare attentamente che in un qualsiasi involucro di plastica che avvolge un oggetto, nei tasti per mezzo dei quali io sto scrivendo questo articolo, c'è un costo che avrà delle conseguenze sul nostro pianeta per decine, centinaia e forse migliaia di anni. Non possiamo semplicemente smettere di mandare e-mail o divorziare dal frigorifero perché sarebbe una scelta ridicola e anacronistica; quello che, però, possiamo e dobbiamo fare, è considerare i limiti connessi ad una visione “ambientalista integralista” del problema, dove per ogni rifiuto riciclato ne esistono dieci o venti smaltiti in maniera errata, e cercare di porre la massima attenzione a ciò che si decide di acquistare, perché le multinazionali hanno tutto l'interesse a spacciare per ecologico qualcosa che magari in sé lo è, ma che potrebbe essere stato realizzato con metodologie tutt'altro che rispettose del pianeta (e di cui, lo ribadisco, non dobbiamo sapere nulla). L'ignoranza è una prerogativa forte, fortissima, delle società cosiddette “sviluppate”, orientate al guadagno uber alles per ingrassare il più possibile i loro mercati. Sarà interessante, speriamo in senso non del tutto negativo, comprendere – come ho già avuto modo di sottolineare in un articolo di qualche tempo fa per un altro sito – in che misura l'inevitabilità è destinata ad influenzare il nostro agire quotidiano nel prossimo futuro.
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Re: L'insostenibile sostenibilità ci stiamo mangiando il pianeta da soli .ormai e'un percorso a senso unico e in 60anni il mondo lo abbiamo rivoltato come un paio di calzini,e comunque se ci impegnassimo tutti potremmo cambiarlo e andare nel verso giusto ma forse la mia e solo utopia. da carmelom 68
08/12/2013
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Re: L'insostenibile sostenibilità Caro Ivan la verità vera non ha mai interessato la massa del genere umano. Ciascuno pensa sostanzialmente al proprio "orticello". Pochissimi mettono in discussione o si mettono in discussione. I pochi che ogni tanto osano dire la verità o sono snobbati, oppure peggio. Meglio cercare qualche bel capro espiatorio e sfogarsi con quello. in Italia, da più di vent'anni, a questa funzione assurgono caccia e cacciatori. Poi un giorno spariranno loro e se ne cercherà un altro. La storia si ripete sempre, sempre diversa e sempre uguale. da Ezio
03/12/2013
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Re: L'insostenibile sostenibilità Ed il bello e' che proprio gli animalintegralisti sono i maggiori fruitori di impianti elettronici, condizionatori,elettrodomestici, poi , naturalmente sono anche notav, nogas, contro la sperimentazione scientifica e via cosi'. Con questa mentalita', voglio tutto, ma le sostanze inquinanti non le voglio nel mio giardino, ma dove vogliono arrivare?Alla distruzione dell'Italia, questo e' il loro obiettivo da Gasperino
03/12/2013
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