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dic23 23/12/2013
È del 14 dicembre 2013 la notizia dell'allunaggio di 'Yutu', la sonda spaziale cinese che ha messo piede sul suolo del nostro satellite, facendo dell'”impero celeste” la terza nazione al mondo, dopo Stati Uniti ed ex U.R.S.S., a compiere una simile impresa. Per chi scrive, è stato come un déjà vu che non ha mai vissuto; un ritorno a quell'atmosfera di gioioso ed edulcorato entusiasmo, che traspariva dai libri di storia, insieme alle più rosee prospettive di un futuro da vero protagonista politico ed economico che il governo di Jinping comincia a intravedere. Non che, ovviamente, la Cina non fosse già la nuova leader dell'economia mondiale, ma forse le mancava un'impresa titanica che lo certificasse agli occhi del mondo, in particolar modo occidentale: ecco, ora ha ottenuto l'avallo del sistema solare, e già si prevede l'installazione di una base spaziale nonché una nuova “passeggiata” sulla luna da parte di un astronauta cinese. Il tutto mentre la grande macchina industriale dell'impero comunista continua a funzionare a pieni polmoni, minacciando quelli dei suoi cittadini che mai come in quest'ultimo periodo sono stretti nella morsa dell'inquinamento atmosferico (sebbene, va detto, i media di stato invitino a guardare il “bright side” della faccenda: è innegabile la presenza dello smog, tuttavia ha il vantaggio di interferire con il sistema di guida dei missili stranieri ma anche di rendere più unita la popolazione, perché «colpisce i polmoni tanto dei ricchi quanto dei poveri». Date un'occhiata, se non ci credete, allo Yale Environment 360's digest del 10 dicembre).
Chi è vissuto al tempo dello sbarco sulla luna di Armstrong e Aldrin nel '69 avrà forse riconosciuto la stessa retorica di fondo con cui oggi, dopo più di quarant'anni e numerosi allunaggi successivi, è stato accolto il buon esito della missione cinese: un'impresa storica per una nazione certamente inferiore, dal punto di vista delle conoscenze tecniche, rispetto alla concorrenza; trampolino di lancio verso quella crescita verticale che i paesi ricchi hanno prima sognato e poi conquistato, con le conseguenze, spalmate nei decenni e in un futuro meno remoto di quanto si creda, da tutti conosciute.
La Cina deve la sua spaventosa ricchezza principalmente a due fattori: le riserve minerarie, in particolar modo di carbone, che la rendono de facto la più grande produttrice al mondo del nuovo “black gold”, e il costo del lavoro pressoché insignificante, sul quale si fonda la sua enorme produttività. Insieme all'India, che per quanto riguarda la manodopera non è certo inferiore all'impero cinese, è uno dei paesi emergenti che non soltanto sta monopolizzando i mercati mondiali, ma, a fronte delle enormi sacche di povertà che rivelano la sostanziale miseria su cui poggia il concetto di “miracolo economico”, non si fa neppure troppi scrupoli ad accogliere i rifiuti provenienti dal bel mondo occidentale, specialmente Europa e Nord America, dove le aziende vogliono abbattere il più possibile gli esosi costi di smaltimento dei loro prodotti e alzare l'asticella dei guadagni. I governi locali, in larga misura corrotti, chiudono un occhio e mezzo sul contenuto dei container che approdano nei porti, destinato allo smistamento in specifici villaggi-discarica, per la gioia degli abitanti che, pagando in termini di salute, si guadagnano da vivere in questo modo.
Abbiamo già osservato la volta scorsa il caso di Guiyu, cittadina nel distretto di Guangdong ormai devastata dall'inquinamento non solo del materiale plastico degli EEE (Electric and Electronic Equipment, ossia, in pratica, i rifiuti elettronici come TV, computer, vecchi elettrodomestici), ma anche delle sostanze neurotossiche e cancerogene in essi contenute, al punto che non si trova più acqua potabile e gli ecosistemi limitrofi sono stati ormai interamente compromessi: sì, perché la nuova frontiera del riciclo a buon mercato sono le piccole percentuali di metalli preziosi con cui la maggior parte delle apparecchiature tecnologiche viene assemblata, in particolar modo oro, argento e rame, che possono essere recuperate e quindi reimmesse nel circuito commerciale. Il problema sono le metodologie del recupero, quasi sempre lontane, per quanto riguarda queste realtà povere del mondo, da ogni forma di rispetto delle basilari norme di sicurezza per la salute: senza entrare troppo nei dettagli, le sostanze tossiche che vengono rilasciate, come diossine, piombo e mercurio, si accumulano negli organismi di chi vi sta a contatto. Analisi mediche effettuate sui bambini di Agbogbloshie, alla periferia della capitale ghanese di Accra (un altro famoso centro di raccolta degli e-waste) hanno rivelato inquietanti livelli di piombo e cadmio nel sangue, che vengono assunti sia attraverso il contatto e la respirazione diretta di queste sostanze, sia a causa della contaminazione di cibo e acqua, sia, per i più piccoli, tramite l'allattamento materno.
I bambini, infatti, sono direttamente coinvolti nel business del riciclaggio dei rifiuti elettronici, destinato evidentemente a dilatarsi con l'aumento della produzione di apparecchiature all'avanguardia (corroborato da quei fenomeni di obsolescenza programmata e psicologica descritti chiaramente da Serge Latouche nel libro Usa e getta, edito da Bollati Beringhieri). Tuttavia sarebbe un grosso errore pensare che le realtà economiche povere quali l'Africa centrale o emergenti come la Cina (sia pure, al di fuori dei folli ambienti metropolitani, altrettanto povera) “subiscano” passivamente il fenomeno dell'importazione degli e-waste e guardino ad esso solo come a una fonte di facile guadagno: laddove, infatti, i governi sono (sarebbero) chiamati ad adottare misure più stringenti nei confronti della circolazione di rifiuti tecnologici di seconda e terza mano, tanto cancerogeni per l'uomo quanto mortali per gli ecosistemi, gli stessi costituiscono, per nazioni come, ad esempio, la Nigeria o lo stesso Ghana dove l'istruzione è ancora un miraggio, uno strumento fondamentale per la loro crescita culturale attuata attraverso programmi di informazione e comunicazione (ICT, Information and Communications Technology). Gli EEE obsoleti, oltre ad essere smontabili in vista del recupero delle componenti preziose, grazie ai loro costi contenuti possono essere acquistati dalle scuole oppure dalle singole persone e venire utilizzati a scopo didattico, allo stesso modo di come la televisione fu, per le famiglie italiane dei primi anni '50, un mezzo di alfabetizzazione e divulgazione. Senza contare che, se i governi cercassero di bandire gli EEE, questi continuerebbero probabilmente a muoversi lungo le vie del mercato clandestino, affiancandosi ad altre piaghe sociali come il traffico di droga.
Qualsiasi medaglia ha sempre due facce. Il fenomeno dell'”urban mining” (cioè, appunto, il recupero dei metalli preziosi dalle carcasse del materiale elettronico di rifiuto) genera, nella sola Guiyu, un introito complessivo di 75 milioni di dollari l'anno: il che significa che una delle pratiche di riciclaggio più distruttive in assoluto (che potrebbe, in condizioni normali, essere gestita secondo criteri sostenibili, nelle apposite strutture e con le apposite precauzioni per la salute) determina, nonostante tutto, il sostentamento economico di molte famiglie, che nella maggior parte dei casi non conoscono occupazioni alternative. La cosa che, personalmente, trovo più “interessante” (nell'accezione negativa del termine, s'intende) è vedere come i nostri scarti, dei quali non ci preoccupiamo più di tanto una volta chiusi i coperchi dei cassonetti, siano, per altri, una vera e propria fonte di sopravvivenza, ma soprattutto quanto i principi della sostenibilit�siano ancora ben lontani dall'essere recepiti dai ricchi come dai poveri, spesso costretti nel circolo vizioso dell'assenza di alternative.
Come ho detto in chiusura del precedente articolo, io che non conosco soluzioni praticabili per uscir fuori dall'autostrada a senso unico che ha imboccato il progresso sregolato del mondo, la cosa più importante sarebbe tenersi informati, e considerare la lettura di questo semplice post – una goccia nell'oceano profondo di notizie molto più referenziate e letteratura scientifica – non un punto di arrivo, bensì un inizio: perché essere consapevoli di quel che abbiamo sotto gli occhi non è morbosità, ma un atto di giustizia nei confronti di chi ha prodotto i nostri beni di consumo, la casa, l'automobile e la lavatrice, così come verso l'ambiente che ci ospita e mette a disposizione la materia prima. Solo in questo modo, per mezzo di una crescente consapevolezza “nostra” (non demandata alla politica o a qualsiasi organo di supervisione) degli sfaccettati problemi del pianeta, potremo orientarci verso un futuro più pulito e solidale.
Ivan Bececco Tags:3 commenti finora...
Re: Polmoni d'acciaio MALDETTE CINESIII aveva ragione il NONNO...occhio al pericolo giallo!! questi tra 50anni comaderanno il mondo inetero... USA e RUSSIA comrpesa da maria
15/01/2014
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Re: Polmoni d'acciaio la CINA è LA ROVINA DEL MONDO INTERO. da Marco
10/01/2014
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Re: Polmoni d'acciaio Analisi lucida e razionale. Come al solito, condivido in pieno, la cultura e la conseguente consapevolezza sono le sole armi in possesso dell'uomo per non subire passivamente, sulla propria pelle, qualunque scelta fatta da altri, pur consapevoli della deriva probabilmente mai più risolvibile intrapresa dal genere umano da Sergio Ventura
04/01/2014
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