Avrei voluto raccontarvi come sono finalmente riuscito ad abbattere la grande pecora di Marco Polo (Ovis Ammon Polii), mentre “purtroppo” dovrò limitarmi a farvi un fedelissimo resoconto di come invece c’è riuscito Tino, il mio compagno di caccia. Ho avuto l’immenso piacere di conoscere Tino, un simpaticissimo ed atletico imprenditore Bresciano di sessantasei anni, socio fondatore del SCI Italian Chapter, subito dopo il mio arrivo in Kyrgyzstan, dove sia io che lui eravamo andati a caccia.
Per raggiungere il nostro campo base avevamo viaggiato “spalla e spalla” per venti ore, quindi lascio a voi immaginare cosa provammo entrambi quando ci separarono, perché sulle montagne dell’Achsay io per tre giorni cacciai l’ibex, mentre Tino inseguì inutilmente la grande “Marco Polo”. Dopo la mia avventura solitaria, come rientrai al “Camp” venni a sapere che il mio compagno di avventura non aveva ancora abbattuto la pecora, così colsi al volo l’occasione e gli chiesi se potevo unirmi a lui in quell’impegnativa caccia, con la speranza, non lo nego, di riuscire a tirare un colpo anch’io.
Tino accettò la mia proposta con entusiasmo, sostenendo che sicuramente gli avrei portato fortuna, ed anche Simone “Black” Giacomelli, il Patron della spedizione, e Kambarbek, il suo socio kyrgyso, non ebbero nulla da obiettare, anzi furono felici di avere al seguito un discreto fotografo. Se c’è una cosa che non sopporto è l’inattività, così, mentre le nostre guide ricontrollavano i ferri dei cavalli e l’imbottiture delle selle, io e Tino verificammo la taratura della sua splendida Steyr Mannlicher calibro 8 x 68 Shuler “fuoriserie” accuratizzata dal grande Ennio della Bignami e calciata da Francesco Pederiva di Moena.
L’arma sparava bene con le H-Mantel originali, ma durante la sessione di tiro vidi che Tino aveva qualche difficoltà a stringere la rosata a lunga distanza. Ipotizzai che quel fatto dipendesse principalmente dalla precarietà dell’appoggio, così gli proposi un esperimento: “Tino che ne dici se proviamo a montarci il mio bipede?”.
Non ci crederete mai, ma Tino, safarista di fama internazionale, premiato lo scorso anno per aver conseguito il miglior trofeo di Maral, non ne aveva mai visto uno! La sua carabina aveva l’attacco per la cinghia direttamente sulla canna, così per poterci montare il mio bipiede dovetti adattarlo al calcio con dei generosi giri di nastro isolante. Il risultato fu soddisfacente ed anche la resa balistica della Steyr migliorò sensibilmente. Il giorno seguente una lunga fila di cavallini mongoli, silenziosi come la neve, lasciò il campo base. Apriva la pista Kambarbek, seguito da Simone, Tino, due guide ed infine il sottoscritto. Durante le prime uscite avevo preso una discreta confidenza col mio cavallo, tanto che gli avevo dato persino un nome.
L’avevo chiamato Mercedes, come la nota marca di automobili, perché era lento ma affidabilissimo e non si stancava mai! La pecora di Marco Polo vive in un habitat diverso da quello degli ibex, ama le grandi e rigogliose praterie riparate delle montagne. E' una pecora che vive in grossi branchi e alla quale piace pascolare tranquilla, ma è sempre all’erta pronta a rifugiarsi in luoghi inaccessibili al minimo segno di pericolo. La tecnica più comune per cacciarla è la cerca a cavallo e poi, una volta avvistati gli animali, l’accostamento finale deve essere fatto a piedi. Le difficoltà maggiori sono riuscire a scorgere i branchi senza essere visti e individuare un grande maschio da trofeo, perché chi s’accolla l’onere d’intraprendere questa impegnativa quanto costosa caccia, vuole almeno ritornarsene a casa con un trofeo degno di rispetto. Kambarbek tra quelle montagne c’era nato, quindi conosceva alla perfezione tutti i luoghi di pascolo dei prestigiosi animali. Di solito cavalcavamo a mezza costa sempre con i binocoli a portata d mano e quando avvistavamo un branco, più o meno numeroso, smontavamo di sella posizionavamo il “lungo”, valutavamo i selvatici e poi riprendevamo la cerca. Il primo giorno avvistammo un centinaio di pecore, ma per un motivo o per un altro non riuscimmo mai a concludere positivamente. Rientrammo al Camp “stanchi ma felici”.
Anche se Tino non aveva tirato, di animali ne avevamo comunque visti a sufficienza. Fummo tutti concordi nel ritenere l’indomani come il giorno decisivo ed andammo a coricarci sui nostri pagliericci di feltro con innovato entusiasmo. Durante la notte, un po’ per smaltire le grandi quantità di tè che avevamo bevuto, un po’ per respirare il poco ossigeno che la stufetta alimentata a merda di yak ci concedeva, io e Tino dormimmo a tratti pochissime ore. Quando alle quattro Simone venne a svegliarci, noi due eravamo già vestiti e con le nostre attrezzature pronte. Risaliti in sella dei nostri generosissimi cavalli riprendemmo per l’ennesima volta la via delle montagne. Quel giorno il tempo non era affatto bello. Grevi nuvoloni offuscavano il cielo ed un vento gelido ci flagellava senza pietà.
Mentre procedevamo come alpini al fronte, nei miei confortevoli indumenti “Hight Tech”, con ai piedi i miei caldissimi ed indistruttibili Crispi Nevada e con due cappelli in testa, mi ritrovai a guardare Tino ed a chiedermi se anch’io, alla sua età, fossi stato animato dalla stessa incrollabile passione. Gli americani definiscono la pecora di Marco Polo come la “Top of the World”, e secondo me hanno ragione. Tino mi aveva confidato che per lui abbatterla sarebbe stato il coronamento della sua lunga carriera di cacciatore. Io non seppi dagli torto, e chissà se un giorno avrei avuto anch’io la stessa fortuna. Che il tempo sia bello oppure brutto, qualsiasi forma di caccia è sempre emozionante, ma ipotizzai che il vento ed il nevischio non contribuivano certo alla buona riuscita. Verso mezzogiorno ci fermammo per mangiare. Il menù? Sempre lo stesso: un pezzo di pane azzimo, un tocco di formaggio di origine sconosciuta ed una manciata di noccioline e di frutta secca.
Mangiammo tutti avidamente e dopo un ultimo tè bollente riprendemmo il cammino. Verso le tre del pomeriggio avvistammo una decina di pecore. Si trovavano sull’altro versante da dove eravamo noi e col solo ausilio dei binocoli vedemmo che erano tutti maschi. Kambarbek “Il Boss”, come l’avevo soprannominato io, con la sua calma innaturale per l’ennesima volta riposizionò il suo inseparabile specktive e prese a valutare in silenzio ogni singolo capo. Dal sorriso che fece quando si girò a guardarci, capimmo che forse era giunto il momento buono. Riposto il lungo, dal sacco di juta appeso alla sua sella tirò fuori due tute bianche, ne indossò una lui e consegnò l’altra a Tino, poi comincio a dare istruzioni a “Black” che doveva tradurle a Tino. Le nostre guide intanto impastoiarono tutti i cavalli meno due. Simone venne verso di noi e solennemente disse: “Tino preparati che con Kamberbek tenterete di portarvi a tiro”.
Detto ciò ritornò dal Capocaccia per fare il punto della situazione assieme agli accompagnatori. Io mi gustavo tutta la scena con distacco, ipnotizzato da quei dieci puntini chiari che pascolavano a mezza spalla. Kamberbek e Tino rimontarono sui loro cavalli e partirono. Io e Simone li seguimmo per un po’ con i binocoli, nel lungo giro che li avrebbe portati quasi in cima alla montagna. Lassù, ci aveva confidato il grande cacciatore kyrgyso, c’era uno stretto sentiero che le pecore di Marco Polo, se disturbate, avrebbero percorso per mettersi in salvo. Passò forse più di un’ora, ed anche le due guide si allontanarono e presero ad avanzare a piedi verso la montagna dove si trovavano le pecore che, come s’accorsero dei due uomini, cominciarono ad allontanarsi ma senza fretta. Erano consapevoli che dove avevano intenzione di andare quei due puntini scuri non avrebbero mai potuto seguirli, ma non credo sospettassero che in alto c’erano due vecchi predatori in agguato.
Le Marco Polo si muovevano in fila indiana con una lentezza esasperante, per un attimo mi venne quasi il sospetto che potesse fare buio, senza che Tino fosse riuscito a sparare neanche quella volta. Dopo diversi muniti le nostre guide rientrarono, mentre io e Simone, nel frattempo, avevamo anche perso di vista le pecore. La visibilità stava diminuendo rapidamente, ma purtroppo non il vento ed il nevischio. Un tempaccio come quello poteva anche essere una bellissima coreografia a quell’impegnativa caccia, ma al sottoscritto aveva quasi rotto i c…..ni. Mi diede conforto la certezza che entro un’ora al massimo, qualunque fosse stato l’esito della caccia, avremmo ripreso la strada del ritorno. Il boato dell’8 x 68 ci arrivò ovattato e fu come l’ordine di correre a prendere i nostri cavalli. Li slegammo velocemente e poi seguimmo le tracce nella neve lasciate precedentemente dai nostri due compagni.
Dopo quella cannonata non dovevamo certo preoccuparci di far rumore, così raggiungemmo Tino e Kamberbek in poco tempo. La mia gioia più grande fu quando vidi il vecchio socio del Safari Club International sorridere, tutto preso a fotografare uno splendido esemplare di pecora di Marco Polo disteso sulla neve. Lo imitai anch’io, per sfruttare l’ultimissima luce naturale e tra uno scatto ed un altro mi complimentai con lui incitandolo a raccontarmi tutto. Tino con gli occhi velati dalla commozione disse di aver atteso, sdraiato nella neve, che le pecore arrivassero a tiro (duecentocinquanta metri!!) e poi, dopo aver preso di mira la più grande, l’aveva centrata con un preciso colpo in pieno petto.
Per l’assoluta mancanza di vegetazione non potemmo porgere al nobile animale “l‘ultimo pasto”, ma un del coro di Weidmannsheil lo facemmo lo stesso! Il trofeo, come tutto l’animale d’altronde, era meraviglioso. Sicuramente tra quelle montagne ai “confini del paradiso” ce ne sarà stato anche uno più grande, ma la Marco Polo di Tino era comunque di tutto rispetto e, una volta magistralmente preparata da un bravo tassidermista, avrebbe occupato il posto d’onore nella sua nutrita sala trofei. Per quando recuperammo il Cap e la carcassa era ormai notte fonda. Per tutto il giorno il tempo non ci aveva dato tregua, ma non era stato ugualmente in grado di rovinarci quell’indimenticabile avventura. Giunti al campo fu festa grande. Come tradizione vuole, Kamberkek stappò una bottiglia di champagne ed il brindisi andò avanti fin quando Asel, la nostra insostituibile Girl tuttofare, ci comunicò che la cena era pronta. Quando vedemmo cosa ci aveva preparato: spaghetti italiani alla bolognese e bistecca di manzo alla griglia, ci sembrò di esser quasi ritornati a casa. Ma di tempo ne doveva trascorrere ancora parecchio prima che potessimo riabbracciare i nostri cari, perché l’indomani cambiammo zona per cimentarci a capo fitto in un’altra indimenticabile avventura.
MARCO BENECCHI
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