Con il presente parere tratteremo un tema importantissimo affrontato più volte dalla giurisprudenza che ha da sempre comportato notevoli problematiche negli addetti ai lavori.
Cosa si intende per esercizio venatorio?
La domanda potrebbe sembrare apparentemente banale, ma invece la nozione di esercizio venatorio è fondamentale per qualsivoglia problematica legale inerente alla caccia.
Perciò è indispensabile cercare di inquadrare l’argomento partendo dalla legge di riferimento ed esaminando l’interpretazione giurisprudenziale citando alcune massime della Suprema Corte di Cassazione.
La legge 157 del 1992 all’art. 12 fornisce una definizione di “esercizio venatorio” ai commi secondo e terzo e l’individua in “ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica” mediante l’impiego dei mezzi indicati, in modo specifico, nell’art. 13.
Viene altresì compreso nell’esercizio venatorio “il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla”.
Dall’analisi della normativa, pertanto, consegue che l’attività di caccia non contempla esclusivamente la cattura e l’uccisione della selvaggina, ma anche l’attività preliminare e la predisposizione dei mezzi ed ogni altro atto diretto alla cattura e all’abbattimento in tal senso qualificabile dal complesso delle circostanze di tempo e di luogo in cui esso viene posto in essere.
Tale ampia nozione della pratica venatoria è stata ripetutamente considerata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale ha anche esplicitamente escluso la possibilità di una lettura in senso riduttivo della richiamata normativa (Sez III n. 18088 del 16 aprile 2003; Sez III n. 452 del 15 gennaio 1999) ed ha affermato, peraltro, che l’accertamento dell’esercizio venatorio costituisce giudizio di fatto, incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivato (Sez. III n. 2555 del 25 ottobre 1994).
Nelle richiamate sentenze l’esercizio dell’attività venatoria è stato rinvenuto, ad esempio: nel possesso di fucile e delle relative cartucce, nello sparo di uno o più colpi e l’accompagnamento con un cane da caccia; nel recarsi a caccia , con l’annotazione sul tesserino venatorio, in possesso di richiami vietati, nell’ispezione di trappole predisposte per la cattura di richiami vivi; nell’aggirarsi con un fucile e in osservazione del territorio.
Detto ciò al fine di chiarire in maniera ancor più precisa l’interpretazione della Suprema Corte si ritiene opportuno analizzare una delle ultime sentenze in merito e precisamente la n. 16207 del 2013.
Nella predetta pronuncia si evince che l’imputato era in possesso di un fucile da caccia non rispondente alle caratteristiche previste dalla legge che veniva rinvenuto, in una località deputata alla caccia, all’interno del bagagliaio di una autovettura di proprietà di un terzo, pure presente sul posto ove venivano anche rinvenute in terra molte cartucce.
Secondo la Corte si tratta di “elementi obbiettivi del tutto idonei a configurare un’ipotesi di esercizio dell’attività di caccia”.
Non v’è chi non veda come la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto penalmente rilevante una serie di comportamenti integranti violazioni della legge sulla caccia che, pur non consistendo nell'apprensione materiale della preda, ne costituiscono il naturale presupposto.
Pertanto l’esercizio della caccia secondo gli Ermellini può essere provato anche in base ad elementi presuntivi, che rivelino unicamente il proposito di attività venatoria.
Tuttavia non sfugge che l’interpretazione ormai costante della giurisprudenza sull’ esercizio venatorio è così estesa che potrebbe ricomprendere anche attività che con la caccia nulla hanno a che fare.
Da ciò si deduce che l’esercizio venatorio viene inquadrato dalla giurisprudenza in senso “ampio”, ma non si specifica in concreto ciò che è realmente “l’esercizio venatorio” che sarà ravvisabile caso per caso secondo elementi sicuramente “obbiettivi” ed “idonei”, ma spesso non concreti.
Non è un caso che nel 2003 con la sentenza n. 48100 la Corte ha evidenziato, ad esempio, che “la nozione di esercizio venatorio rilevante per l'applicazione delle sanzioni penali previste dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, comprende necessariamente la disponibilità di mezzi idonei all'abbattimento o alla cattura della selvaggina. Ne consegue che la mera disponibilità di un richiamo utile ad attirare pennuti, per quanto lo stesso risulti di genere vietato, non integra la contravvenzione di cui all'art. 21 lett. r) della citata legge n. 157 del 1992 quando, per la mancanza di strumenti utili alla soppressione o all'apprensione degli stessi pennuti, non sia riferibile a persona in atteggiamento di caccia.”
Si ritiene dunque logico argomentare che l’atteggiamento di caccia deve dedursi da un insieme sinergico di elementi tra loro connessi e che, fermi restando i parametri-base di cui all’art. 12 legge 157 del 1992, variano per forza di cose da caso a caso e nel contesto dei quali non si può in linea generale, individuare una o più elementi o azioni costituenti da soli in senso assoluto il verificarsi o meno dell’esercizio venatorio.
Sotto tutt’altro aspetto la recente sentenza n. 16207 del 2013 precedentemente richiamata è altresì emblematica perché ribadisce un principio in ambito venatorio che possiamo ritenere basilare.
All’imputato era stato sequestrato il fucile perché rientrante tra quelli vietati ai sensi dell’art. 13 comma 1 legge 157/1992.
Nel motivare la legittimità del sequestro operato statuendo pacificamente che qualsiasi modificazione accessoria dell’arma per renderla più offensiva non è consentita, la Cassazione aggiunge ”in materia di caccia e di armi non vige la regola in forza del quale tutto ciò che non è espressamente vietato deve considerarsi consentito, ma quella opposta in base al quale tutto ciò che non è espressamente consentito deve considerarsi vietato”.
Tale principio peraltro era già stato affermato dai giudici di Piazza Cavour con la sentenza Sez. III n. 28511 del 13 luglio 2009.
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