Cristiano può essere un nome vero oppure di fantasia, non ha importanza, quel che conta è che il ragazzino in oggetto al compimento del dodicesimo anno d’età non ricevette dai nonni per regalo una bicicletta, uno skateboard, un paio di pattini o una tuta da ginnastica dell’Adidas, ma una bellissima carabina Browning calibro 22-250 Remington, con tanto di ottica 14 x 44! Ipotizziamo anche che Cristiano sia figlio di un ungherese, di uno sloveno, di un croato o di un toscano e che abbia avuto l’occasione di accompagnare fin da giovanissimo il papà a caccia nelle pianure, tra i boschi e sulle montagne. E che un bel giorno si sia ritrovato con una vecchia doppietta tra le mani, proprio mentre una grossa lepre stava uscendo dal bosco. Da qual momento in poi la sua vita non fu più la stessa.
Cristiano mantenne sempre un elevato rendimento a scuola, riordinò puntualmente la sua cameretta, continuò a tirare calci al pollone e a giocare a figurine con i suoi coetanei, ma c’era sempre un’immagine scolpita indelebilmente nella sua mente e nel suo cuore che lo perseguitava: quella di una lepre che cadeva centrata in pieno da un solo colpo, sparato proprio da lui! Il papà, da vecchio e grande cacciatore quale era, vedendo la metamorfosi che stava subendo suo figlio, ebbe delle emozioni molto contrastanti tra loro. Avrebbe dovuto assecondare quella innata passione che lo stava stregando (la stessa che tanti anni addietro si era impossessata di lui e che prima ancora aveva contaminato anche suo padre e suo nonno), oppure doveva cercare di frenare tutto quell’entusiasmo? “Cacciatori si nasce, non si diventa”. Questo è un assioma inconfutabile. Puoi allevare un lupo e tenerlo in giardino assieme a conigli ed agnelli, ma poi non ti stupire se un brutto giorno accade una piccola tragedia. La passione per la caccia, o meglio l’istinto del cacciatore, deve essere accettato, compreso e assecondato perché è nella natura umana. Se nostro figlio preferisce seguirci a caccia piuttosto che andare all’oratorio salesiano, non dobbiamo assolutamente sentirci in colpa, anzi, dobbiamo esserne fieri.
Ma torniamo a Cristiano…una ciliegia tira l’altra. Visto che ormai s’era guadagnato con onore la sua prima bella, prestigiosa preda, perché non poteva aspirare anche a catturare qualcos’altro? Magari un fagiano, una volpe e perché no, anche un cinghiale o un capriolo? A undici anni, anche se Madre Natura l’aveva dotato di un fisico da adolescente, non poteva certo andare a caccia da solo (per non parlare poi delle leggi vigenti nel paese dove Cristiano viveva!), così il padre lasciò che fosse il destino a decidere quale fosse la strada da seguire. Continuò a portarlo con sé tutte le volte che andava a caccia e se il ragazzo ne aveva voglia, senza mai forzarlo. I due amici, perché quello erano, avevano già fatto insieme il “balzello” alla lepre, chissà se era giunta l’ora di tentare anche una posta al Re della macchia mediterranea? La prima sera andò a vuoto, così come la seconda e la terza, ma alla quarta uscita le cose andarono meglio. Il branchetto di cinghiali arrivo che quasi non ci si vedeva più. Da dietro il mucchio di sassi dove padre e figlio erano appostati, non si udiva un sol respiro. Lo scaltro genitore gli aveva fatto togliere la sicura alla doppietta, appena il sole era sceso “nel sacco” e quando vide il suo cucciolo d’uomo portare con una certa difficoltà il fucile alla spalla, gli vennero gli occhi lucidi. Per un cacciatore esperto quello sarebbe stato un tiro facile, ma Cristiano per essere certo di non sbagliare ed anche per paura di deludere suo padre, appoggiò le due canne sopra ad una pietra, prese attentamente di mira un cinghiale discostato dal branco, chiuse un occhio (o forse tutti e due!), trattenne il respiro e poi tirò il grilletto.
Una Brenneke calibro 12 genera un rinculo violento, ma se a Cristiano fece male non lo diede a vedere. Si voltò verso suo padre in attesa, con delle tacite domande negli occhi: l’ho sbagliato? L’ho preso? Spero di non averlo ferito. Il responso arrivò con un sorriso e con una pacca sulle spalle. Un abbraccio o un bacio sarebbero state cose da femminucce. Cristiano aprì la doppietta, restituì al padre la cartuccia carica e mise in tasca il bossolo di quella sparata e poi con calma raggiunsero insieme l’animale morto. Cristiano lo accarezzò, s’inebriò del suo odore forte e acre, controllò dove lo aveva colpito e cercò anche di stimarne il peso. Con il padre si accordarono per quaranta–cinquanta chili, anche se forse non arrivava a trentacinque! Poi, emozionato ma sereno, il neocacciatore di cinghiali s’inginocchiò per ricevere il “battesimo” che il padre avrebbe fatto pronunciando frasi solenni e tracciando dei segni sul suo viso con il sangue ancora caldo del suo primo cinghiale. Semmai ci fosse stata una remotissima possibilità che Cristiano non diventasse un cacciatore, dopo quella sera era scemata per sempre. Quel che accadde dopo è comune a molti altri giovani cacciatori.
Quando hai già incarnierato un cinghiale ed una lepre, fai presto a prendere anche un fagiano e poi tortore, colombacci e tordi, e sempre usando la doppietta di tuo padre, che a sua volta era stata di tuo nonno. Cristiano ormai si sentiva pronto per il grande passo, ma suo padre gli avrebbe mai permesso di usare la bella Remington calibro 270? Quella con il cannocchiale lungo e nero che lui ammirava per ore ed ore attraverso il vetro della rastrelliera? Il sogno di Cristiano si avverò un freddo pomeriggio di fine inverno, quando, sempre incollato alla giacca di fustagno del genitore, caricarono zaino, binocolo e…carabina sul fuoristrada. Il ragazzo non sapeva né dove stavano andando né cosa speravano di cacciare, l’importante era che andavano nel bosco, tutto il resto non contava. Per circa un’ora percorsero sentieri, carrarecce, cesse tagliafuoco e guadarono fiumi e ruscelli. Durante il tragitto avvistarono di tutto, persino un fusone di daino. Giunti in prossimità di un grande prato incolto il padre di Cristiano parcheggiò il fuoristrada e (anche se non ce n’era assolutamente bisogno) si portò il dito indice della mano destra al naso. Da quel momento in poi ogni rumore sarebbe stato sacrilego. Cristiano si caricò lo zaino sulle robuste spalle, mentre il padre prese la 270 Winchester ed il binocolo.
Camminarono furtivi lungo il confine del bosco finché, ad un tratto, il genitore s’immobilizzò. Alzò il binocolo, osservò un punto preciso del prato per diversi secondi e poi lo passò al figlio. “Le vedi laggiù quelle tre sagome scure? Sono caprioli. Quello più grosso a destra è un maschio. Non lo perdere di vista”. A Cristiano cominciarono a tremare le gambe, ma riuscì ugualmente a seguire il padre che era entrato nel bosco per cercare di fare una manovra d’avvicinamento. Procedevano piano, controllando dove mettevano i piedi e la direzione del vento e, attraverso l’altofusto, la posizione degli animali, che ancora erano apparentemente ignari della loro presenza. Giunti in prossimità di un piccolo dosso si fermarono. Distavano non più di cento–centoventi metri dai caprioli. Il padre chiese a Cristiano di consegnargli il binocolo e lo zaino. Mise quest’ultimo a terra, ci adagiò delicatamente sopra la carabina e con un movimento al contempo fluido e silenzioso fece scorrere in canna una cartuccia dorata. A Cristiano batteva il cuore talmente forte che se ne vergognò. Ebbe quasi il dubbio che riuscisse a sentirlo anche suo padre.
Ma senza farsi incitare, si posizionò dietro l’arma come gli era stato insegnato, la impugnò, sistemò bene il calcio contro la spalla e prese a traguardare il maschio di capriolo direttamente attraverso le lenti del 6x42 montato sulla Remington. “Non avere fretta. Sfiora il grilletto soltanto quando il reticolo è nel punto giusto. Soltanto allora”, gli sussurrò suo padre nell’orecchio sinistro. Passarono pochissimi istanti ed uno sparo ruppe il silenzio che regnava nel bosco, spense una vita e ne segnò inesorabilmente un’altra.