Il Carso è sempre stata una terra difficile per la selvaggina e anche per l'uomo. E' una terra di sassi, buche e, oggi, di fittissimi boschi e acacie. E' come una spina dorsale nodosa e storta che attraversa un territorio che va da Gorizia fino a Trieste.
Ma il Carso non è sempre stato così.
Durante la prima guerra mondiale è stato devastato dalla furia cieca dei bombardamenti che spazzarono via ogni albero e cespuglio, mentre gli uomini, in attesa degli assalti, vivevano nelle viscere del monte.
Dopo la guerra, il Carso lentamente è rinato. I contadini sono tornati alle loro terre e con pazienza hanno ricominciato a coltivarle. In ogni avvallamento provocato dalle bombe, e in ogni dolina, i segni della guerra hanno lasciato lentamente il posto agli orti. La vegetazione è ricomparsa tra il piombo lasciato sul terreno e gli uomini hanno ricominciato a tenere puliti i boschi prendendo la legna da ardere. Così, piano piano, sono ritornati anche gli animali.
Il Carso è ricominciato ad essere popolato di nuovo di starne e lepri. I caprioli sarebbero arrivati molto dopo. ma l'uomo ricominciò subito ad andare a caccia...
Qualche anno fa sono stato invitato da amici a beccacce sul Carso Goriziano. E' stata una bellissima giornata di caccia in un ambiente che conoscevo poco. Ignoravo i viottoli, le piccole radure, i boschi e il senso di pace che si respira solo pochi metri lontano dal nastro d'asfalto.
Abbiamo anche fatto un bel carniere e io ho cacciato la mia prima beccaccia.
Dopo la caccia, l'ospitalità è stata di prim'ordine. Siamo andati tutti assieme a mangiare in una bellissima casa di caccia di proprietà di un socio, in mezzo al bosco. L'ambiente era pulito e molto accogliente. La compagnia ottima.
Si parlava di caccia e si beveva buon vino in attesa del pranzo. Non mi sembrava vero.
Dopo un po' mi si è avvicinato un socio anziano, molto gentile e con una gran voglia di raccontarmi dei “bei vecchi tempi”.
I racconti erano avvincenti e struggenti nello stesso tempo.
Ricordava quando il Carso era coltivato a orto. Ricordava quando il Carso era popolato da pernici e lepri. Ricordava quando le domeniche, sul ciglio di ogni dolina dove c'era un orto, si potevano vedere anche quattro o cinque cani “in ferma”, controvento, dove l'aria portava ai loro nasi l'odore forte della selvaggina nascosta tra le foglie delle verdure. Ricordava tutto molto bene.
Ho passato un bel paio d'ore con quell'uomo, ad ascoltare belle parole e pochi rammarichi. Era un uomo forte che non ne voleva sapere di fagiani prontacaccia. Amava il Carso e ne ricordava chiaramente i tempi migliori per la caccia.
Alla fine, però, mi raccontò che quando era giovane, alla fine delle giornate di caccia, prima di tornare a casa, lui e qualche amico cacciavano ancora una mezz'oretta. Per concludere la giornata andavano a lepri. Ce n'erano sempre, e spesso in pochissimo tempo riuscivano ad ammazzarne anche sette o otto. Così, tanto per divertirsi un po'.
Oggi il Carso non è più terra di lepri e non è certo colpa né di quel cacciatore, né dei suoi amici. Loro non credevano di fare male. Le circostanze erano troppo diverse da oggi. La selvaggina abbondava, l'ambiente era ben tenuto da chi viveva la terra come fonte di vita. La passione venatoria era molto diversa da quella odierna.
I cacciatori di oggi, però, dovrebbero riflettere su come una terra poverissima come il Carso poteva essere ricca di lepri e cercare di capire cosa è cambiato, che grande ricchezza è andata perduta e decidere di fare qualcosa.
Decidere di investire risorse economiche, affittare la terra dai proprietari che non la coltivano più, sudare nei boschi nel lungo periodo di caccia chiusa per riqualificare l'ambiente, disboscare con criterio e con l'aiuto di esperti, riportare l'acqua dove non c'è più.
Ridare vita alla terra e alla natura perché la selvaggina possa tornare a vivere per essere patrimonio di tutti.
Davide Zaninotti
* Tratto dal libro "La notte del cacciatore", Edizioni Biblioteca dell'Immagine - Pordenone, 2005