Dana e Medea in ferma chilometrica su starne
L’arte del cacciare insieme al proprio padrone è un atto d’amore che si apprende da piccoli, e che si traduce poi in buona pratica sul terreno. L’importanza del rapporto con il cucciolo
Non v’è dubbio sul fatto che sia impossibile, per chiunque, andare a caccia utilizzando un cane da ferma che, per quanto bravo, sia scollegato dal suo padrone-conduttore. A ben poco, se non a nulla, infatti, può valere la migliore potenza olfattiva, una cerca superlativa e la più solida delle ferme se l’intero agire del nostro ausiliare non muove da una condizione psicologica di fondamentale importanza: il cacciare, se non “al servizio di”, per lo meno “insieme a” qualcuno. Un qualcuno molto più lento di lui, che possiede due gambe anziché le sue quattro zampe ma senza il quale - ecco l’importanza del collegamento anche per il cane – sarà impossibile abboccare l’oggetto dei desideri, il selvatico con tanta fatica reperito e fermato.
E se nei cani da caccia di 40 anni fa si poteva anche tollerare una scarsità di collegamento, nei moderni ausiliari – specialmente quelli inglesi, ma non solo – votati alla cerca più ampia possibile, ai limiti dell’esasperato eppure l’unica in grado di far loro incontrare qualche selvatico – almeno sul terreno libero, il collegamento è condizione imprescindibile se si vuol pensare anche solo di uscire di casa per provare a sciogliere. Quante volte, in montagna, ci si imbatte in colleghi disperati alla ricerca del proprio cane da ferma, magari “migrato” a chilometri di distanza dietro a chissà che cosa…
Sotto questo aspetto la moderna tecnologia viene incontro agli appassionati dotati di sufficiente fiducia e portafogli disponibile: i radiocollari satellitari consentono di conoscere esattamente dove si trova l’ausiliare, sia esso in ferma, in cerca corretta o impegnato della più infame delle scorribande. Il risultato è che il padrone-conduttore eviterà patemi d’animo, denunce di smarrimento e giorni interi di ricerche, con il rischio concreto di non ritrovare più il proprio cane che nel frattempo si sarà certamente smarrito o – peggio ancora – potrebbe aver fatto brutti incontri. Costano un po’, è vero, ma al giorno d’oggi i satellitari consentono di affrontare meglio, a livello di stato d’animo, qualsiasi tipo di situazione “canina”.
Ovviamente la tecnologia è cosa recente, non per tutti e comunque non sostituirà mai l’addestramento: piuttosto, ci consentirà di verificare la bontà delle nozioni impartite con la tranquillità di chi è certo di non poter smarrire il proprio ausiliare. Ma l’insegnamento è tutt’altra cosa. E, nel caso del collegamento, parte da lontano.
La montagna, luogo ideale per invitare gli ausiliari ad aprire la cerca
La scuola del collegamento, infatti, comincia in età più che tenera, e fa rima con l’amore incondizionato che il cane nutre nei confronti del proprio padrone-capobranco. Si insegni innanzitutto il suo nome al proprio cane, fin dalle prime settimane di vita. Dopodiché, in cortile, lo si cominci a chiamare in maniera dolce ma decisa, accompagnando il suo nome dalla parola “qua”, “teh” o altri monosillabi, a seconda delle preferenze, purché se ne scelga uno e non lo si cambi più. Questo per abituare il cucciolo, perché di cuccioli si sta parlando, ad un suono della voce semplice e facilmente identificabile, che accompagna il proprio nome e al quale non si può resistere in alcun modo. Anche perché, non appena il cagnolo si sarà avvicinato a noi, riceverà ricchi e ghiotti premi insieme a infiniti complimenti, che gli renderanno molto più facile assecondare la nostra chiamata sin dalla seconda-terza volta. Durante gli esercizi appena descritti non guasterà, di quando in quando, tenere fermo per qualche secondo l’allievo, magari in posizione di seduto, accarezzandolo dolcemente per poi lasciarlo di nuovo libero di esprimere tutta la sua esuberanza. Nel corso dei giorni, progressivamente, si sostituirà la chiamata a voce con un breve fischio e poi un sussurro prolungato, fino ad ottenere l’arrivo rapido del cane in risposta ad una qualsiasi di queste sollecitazioni.
Una volta condotto sul terreno, le distrazioni e le tentazioni aumenteranno sensibilmente: occorre esserne consapevoli e cercare di non stressare troppo l’ausiliare con continue chiamate, il cui senso – peraltro – sarebbe difficilmente comprensibile per il cane che finirebbe con il recepire come inutili punizioni i nostri numerosi richiami. Meglio, molto meglio, nascondersi dietro un ostacolo naturale – per esempio un cespuglio – e poi chiamare una o due volte l’ausiliare. Anche il più cocciuto galoppatore, adeguatamente preparato con gli esercizi da cortile, finirà con il ritrovarsi solo e con l’accorrere verso la voce che non riesce a scorgere. Comincerà allora a cercare il suo capobranco con il suo senso più sviluppato: l’olfatto. Ed ecco la magia del collegamento: il cucciolone mette il naso sulla passata del suo padrone e ne risale la scia olfattiva, fino a ritrovarlo. A quel punto scene di giubilo, coccole, premi golosi e carezze, tante carezze, prima di rimettere il nostro cane prontamente in libertà, per un’altra scorreria. Signori, non ci si crederà, ma già a questo livello il 90% del lavoro potrà dirsi compiuto.
Ora non resta che condurre il nostro cucciolone a caccia, lasciarlo libero di esprimersi nel modo più naturale possibile e, soprattutto, fidarsi di lui. Certamente sbaglierà qualche selvatico, come del resto capita a tutti i cani, anche ai campioni di quando in quando; certamente il suo brio lo porterà ad allungarsi lungo il confine del fuorimano; ma se è davvero il nostro ausiliare, se cioè ha sviluppato quel legame affettivo e quel contatto continuo con la nostra mano sin dai primi giorni della sua vita, allora – grazie agli esercizi appresi e al condizionamento subìto – sarà lui, immancabilmente, a rimanere collegato con il suo conduttore, a cercarlo, a servirlo a caccia per lasciarsi poi servire al momento di concludere l’azione. Senza quasi mai aver bisogno di richiamarlo. Ma tutto, si ricordi, parte dall’amore e dall’intesa reciproca.
Un cane collegato, specialmente se di cerca molto estesa, può percorrere chilometri di montagna al posto nostro, andando ad esplorare anfratti e angoli che altrimenti non riusciremmo mai a setacciare, o almeno non tutti insieme in un’unica giornata di caccia. Un cane che caccia per e con il suo padrone è in grado di sparire per interi quarti d’ora, impegnato in estenuanti lacet alla ricerca del dolce effluvio tanto desiderato, per poi farsi vedere qualche secondo prima di lanciarsi nuovamente in esplorazione di nuovi ettari di terreno.
Insomma, è inutile dilungarsi: un cane collegato è capace delle prodezze più impensabili, degne dei racconti degli anziani. Celebre la storia, ad esempio, di un amico umbro che aveva una setter la quale, condotta a caccia con il solo campano al collo, in ferma su beccaccia usava scuotere brevemente il capo per far tintinnare il bubbolo di quando in quando, onde lasciarsi individuare dal proprio padrone; o ancora più incredibile, eppur vero, il comportamento di quel breton di un altro amico dai capelli bianchi che, dopo oltre mezzora di ferma senza essere ritrovato dal padrone, tornò indietro a cercarlo (avete letto bene) per poi riportarlo dove giaceva nascosta la beccaccia. Che a quel punto, come nei migliori libri di avventure, fu mirabilmente padellata. E così sia.
Lacet abbastanza profondo per la pointer Aria in montagna