Dopo la splendida avventura che avevo vissuto lo scorso anno sulle meravigliose montagne che circondano Cuneo, non vedevo l’ora di poterci ritornare. Fremevo di rivedere i fortunati amici che vivono in quelle Valli incantate, ma soprattutto desideravo praticare di nuovo la caccia più bella del mondo, quella al camoscio in alta quota, cosa che auguro a tutti di poter praticare almeno una volta nella vita. Alla vigilia di ogni importante spedizione di caccia, le cose da ricontrollare sono molte, ma visto che io, Pietro e suo figlio Andrea siamo tutti dei veterani di questa tecnica di caccia, ci preoccupammo soltanto di verificare la cosa più importante: la taratura delle nostre armi.
Ormai per la caccia al camoscio uso esclusivamente una carabina Weatherby Mark V Ultralight in acciaio inox, con il calcio in polimeri e con la canna fluted scanalata in calibro 270 Magnum. L’ho corredata con un 25 x 52 P con correttore di parallasse e reticolo balistico BRi, un compromesso eccezionale tra qualità, prestazioni, peso e ingombro. Pietro non si separa mai alla sua Weatherby Vanguard calibro 257 corredata di un 12 x 56, mentre Andrea non vedeva l’ora di collaudare la sua nuovissima Remington 700 SPS, sempre in acciaio inox e polimeri, in calibro 7 mm RM con sopra un vecchio, ma sempre validissimo, 18 x 50 P. Dopo aver controllato che i “ferri” erano a posto, non rimase altro da fare che affidarsi alla clemenza del dio del tempo, perché due settimane di pioggia quasi ininterrotta avevano messo in ginocchio l’intero Piemonte.
Nonostante le previsioni del tempo fossero pressoché perfette, avevamo un po’ di apprensione, ma quando giungemmo a destinazione ci rendemmo conto di esserci preoccupati invano perché trovammo a darci il benvenuto un cielo tempestato da un milione di stelle. Il primo bersaglio, il più importante, era già stato colpito! Poi, come di sovente accade quando la comitiva è nutrita ed esigente, ci gustammo una abbondante cena tipica in compagnia degli amici del posto, fantasticando sull’indomani. Avremmo praticato la caccia alla cerca in quota, dove la poca neve caduta in precedenza avrebbe dovuto contribuire allo spostamento dei branchi più in basso, sotto i duemila metri di altitudine. Sarebbe stato più difficoltoso avvistare i camosci tra la fitta vegetazione, ma anche meno faticoso. Inoltre, visto che la riserva di caccia che ci ospitava è molto ricca di animali, eravamo comunque molto ottimisti sull’esito della caccia.
Il mattino seguente, dopo aver fatto una leggera colazione alla casa di caccia, ci accomodammo su due fuoristrada e prendemmo direzioni diverse. Io avrei affrontato i ripidi sentieri a ovest accompagnato da Damiano, un cacciatore molto esperto della zona, mentre Pietro e Andrea avrebbero cacciato con Mario e Giuliano, le loro guide storiche, in tutt’altra direzione. Viaggiammo per qualche chilometro su ripide stradine di montagna, sicuramente vecchie mulattiere, poi dopo aver parcheggiato in prossimità di una vecchia baita, zaini e carabine in spalla, euforici iniziammo la caccia inoltrandoci a piedi lungo un sentiero semi nascosto dai rami di larici ed abeti spolverati di neve.
Erano appena le sette del mattino, il sole non era ancora sorto e la temperatura sfiorava i due gradi sotto zero. Fui felice di quel bel freschetto ristoratore, ma non mi feci troppe illusioni. Infatti, dopo meno di mezzora di cammino, ero già fradicio di sudore. Mentre stavamo facendo una piccola sosta per binocolare avvistammo finalmente due camosci! Un brivido mi percorse la schiena perché quello a sinistra sembrava proprio il maschio che stavamo cercando, quello che rientrava nel nostro piano di abbattimento. Mentre lo guardavo attraverso le limpidissime lenti del mio 8 x 42 HD automaticamente lanciai anche l’impulso laser per conoscere la distanza: 340 metri.
Non erano certo tantissimi ma neanche pochi. Oltretutto c’era anche da considerare che i camosci si trovavano molto al di sopra di noi e se Damiano avesse autorizzato il tiro, avrei dovuto tenere conto di un angolo di sito molto pronunciato. Come se mi avesse letto nel pensiero, il mio accompagnatore pronunciò solo poche parole: “E’ quello buono, preparati!”. Ed ecco che mi si poneva il solito, eterno dilemma: dove avrei dovuto mirare? Al poligono, praticamente sul livello del mare, con munizioni ricaricate con palle Hornady Spire Point da 130 grani e spinti da una generosa dose di Norma MRP, la mia Weatherby Ultralight ricama rosate di tre colpi in venti millimetri a duecento metri; a trecentoquaranta il calo non avrebbe dovuto superare i quindici–venti centimetri, così decisi che avrei potuto tranquillamente tenermi nel centro del bersaglio nonostante il fortissimo dislivello.
Regolai il correttore di parallasse, misi l’ingrandimento sui 18–20x per avere un buon campo visivo nel caso il selvatico si fosse dato alla fuga, cercai un buon appoggio sia per i piedi sia per i gomiti, armai lo stecher e quando mi sembrò che fosse tutto a posto sfiorai il grilletto… Né io né Damiamo vedemmo dove impattò la palla, ma di certo non colpì il bersaglio dove avrei voluto. Chiaramente dovevo averlo volato passandogli sopra. Mi maledissi per l’ennesima volta perché, nonostante la distanza, non ero ancora riuscito a convincermi di tirare molto basso, praticamente a filo pancia. Perché dovrei negari i miei limiti? E non ammettere con me stesso che ho una limitata esperienza di tiri lunghissimi in forte pendenza? Purtroppo non ho molte occasioni di fare pratica sia nelle mie abituali zone di caccia sia nell’immensa pianura ungherese.
Vedemmo il robusto camoscio correrci incontro per fermarsi poco dopo. Sarebbe stato ancora a tiro e forse addirittura meglio di prima ma Damiano, valutandolo con più precisione, mi pregò di non sparare perché era un capo promettente e noi la nostra occasione l’avevamo già avuta. Per me sbagliare un camoscio è sempre traumatico. Non è come fallire un cinghiale, un capriolo o un daino, perché ben so che presto o tardi si presenterà un’altra occasione per rifarmi. Ma l’aver sbagliato quel colpo mi rodeva parecchio. Specialmente perché per dare la caccia al signore delle vette mi preparo un anno intero, come una vera e propria ossessione. Riprendemmo il cammino con il morale sotto la suola degli scarponi raccomandandomi al buon cuore della dea bendata che quel giorno sembrava che si fosse dimenticata di me. Avvistammo tantissimi selvatici ma di camosci degni di nota ben pochi. Procedevamo in fila indiana in un silenzio ovattato, con Damiano avanti ed io dietro a pochi passi di distanza.
Ogni dieci–venti minuti ci fermavamo ad ascoltare e binocolare verso il sottobosco o contro le rocce a parete e più ci abbassavamo più l’aria si faceva calda. Camminare in quelle condizioni era piacevole ma anche pericoloso perché nelle zone in ombra c’era sempre il rischio di mettere un piede sopra ad una roccia coperta da un sottile strato di ghiaccio. A mezzogiorno consumammo un frugale pranzo a base di pane, formaggio e salame, ci fermammo giusto il tempo per riprender fiato, poi riprendemmo il cammino. La giornata era bellissima, da manuale. Nessuno si sarebbe mai immaginato che il tempo sarebbe stato così dopo l’alluvione dei giorni precedenti. Purtroppo anche la stanchezza stava facendosi sentire, sicuramente anche a causa dell’insuccesso del mattino. Mi ero illuso di realizzare subito e positivamente l’uscita, ma evidentemente m’ero sbagliato.
Come succede per tutti gli ungulati, anche nel caso del camoscio le speranze di avvistare un buon capo durante le ore più calde e assolate della giornata sono remote. Avevamo tentato di tutto sperando nel classico colpo di fortuna che invece non ci fu. Alle sedici la situazione era la seguente: avevamo incontrato sul nostro cammino diversi caprioli, qualche femmina di camoscio con i piccoli e due yearling, alcune cotorne e addirittura sei galli forcelli, ma considerando che eravamo ai primi di dicembre con i camosci ancora in estro, non potevamo certo ritenerci fortunati. A malincuore decidemmo di arrenderci, di dichiarare forfait, perché la speranza di fare un buon incontro, e quindi di potermi rifare della “padella” mattutina era ormai ridotta al lumicino. Vibrò il mio cellulare, era Andrea. Voleva comunicarmi che sia lui sia suo padre Pietro erano già al Bar del paese a rifocillarsi e a brindare con gli amici perché avevano già abbattuto due bei capi. Mi disse che anche loro avevano avvistato pochi animali e “sparato qualche colpo più del dovuto”, ma nonostante ciò la giornata s’era conclusa piuttosto bene.
Felice del successo ottenuto dai miei carissimi amici feci il punto tirando le somme di quella che era stata pur sempre bellissima giornata, ma proprio in quel momento nel costone opposto vedemmo uscire dal bosco in una radura un bel camoscio. Si muoveva furtivo come un capriolo quando esce al crepuscolo nei prati in Maremma! Damiano impugnò subito il binocolo, io …. la Weatherby! In un attimo aprii il bipiede e mi sdraiai in terra pronto col dito sul grilletto. Il camoscio era a circa 160-170 metri in posizione perfetta, aspettavo solo il via, il semaforo verde per poter sparare. C’era talmente poca luce che ebbi quasi il timore di non riuscire ad eseguire un tiro sufficientemente preciso. Fortunatamente Damiano fu veloce a darmi l’ok, così quel giorno riuscii a guadagnarmi un meritato capo anch’io. Come si dice? Proprio in zona Cesarini! In vita mia credo che non mi era mai capitato di tirare ad un camoscio così tardi, quasi a notte fonda e in condizioni simili. Raccogliemmo veloci le nostre cose e quando raggiungemmo il camoscio con una certa difficoltà fui doppiamente felice sia per come s’era svolta la caccia sia per la qualità del trofeo. Era una vecchia femmina di circa quattordici anni, forse il motivo per cui era sola senza piccolo al seguito.
La onorammo con il Weidmannsheil, scattammo qualche foto col flash e con calma valutammo il trofeo, davvero molto bello. La eviscerammo alla luce dei telefonini poi Damiano se la caricò sulle spalle e ci avviammo verso dove avevamo lasciato il fuoristrada. Stremati, raggiungemmo gli amici che era quasi l’ora di cena e tra tutti i cacciatori il più raggiante, neanche a dirlo, non potevo che essere io.. Nel patio antistante c’erano tre bei camosci agganciati per le corna ed il più bello, non a caso, era una femmina. M’incuriosì molto sapere come s’era svolta la caccia di Pietro e di Andrea che non si fecero certo pregare per raccontarmelo. Anche loro avevano patito prima il freddo mattutino poi il caldo durante il giorno, avevano avvistato pochi animali ma in compenso tutti sparabili. I miei compagni d’avventura mi dissero di aver azzardato qualche tiro e di averne messi a segno due buoni. Andrea aveva avuto qualche piccola difficoltà ad adattarsi allo scatto diretto della sua nuova Remington, sbagliando un camoscio da breve distanza, ma alla fine il tutto si era risolto positivamente.
Pietro invece aveva forse avvistato più capi di tutti, ma la conformazione del territorio gli aveva spesso impedito di tirare, non tanto per problemi inerenti le difficoltà di tiro od altro, quanto alla reale impossibilità di poter recuperare il capo una volta abbattuto. In quelle zone di caccia esistono dei valloni e degli anfratti talmente impervi e remoti dove un uomo può arrivarci soltanto se è un abilissimo scalatore, molto pratico di montagna e di arrampicate e con l’ausilio di alcuni compagni e di una scorta di robuste corde. Ancora una volta sono stato molto felice di costatare che Pietro e Andrea, i miei amici fraterni, con i quali sto condividendo molte avventure venatorie sia in Italia sia all’estero, ancora una volta hanno sapientemente messo a frutto teoria, tecnica, pratica ed esperienza, come dovrebbero fare tutti i cacciatori appassionati di caccia a palla ogni qualvolta prevedono di cacciare prede importanti e di dover tirare a distanze sensibilmente lunghe.
Ricordate che, indipendentemente dalla distanza, se non siete certi di essere in grado di colpire un selvatico con un’altissima percentuale di successo, è meglio non azzardare il tiro e rimandarlo ad un’occasione migliore. Poi, ricordate che la bravura nel tiro in alta montagna dipende da quanto si è allenati e da quante verifiche si fanno sul terreno di caccia, perché un conto è sparare al poligono un altro è farlo contro un selvatico.
Marco Benecchi