La ferma conclude il lavoro del cane da caccia e da quel momento il successo dell'azione venatoria dipende dal cacciatore, dalla sua tecnica di avvicinamento, dalla sua esperienza e anche dal suo "sesto senso".
Con ciò non voglio negare che in alcuni casi il comportamento del selvatico sia imprevedibile, ma sono convinto che nella maggior parte dei casi il modo di avvicinarsi del cacciatore al cane fermo possa in buona misura determinare la reazione della selvaggina nel senso voluto.
Devo premettere che le mie opinioni sono maturate sulla caccia alle starne (praticata in Italia fino agli anni '80 e poi in alcuni paesi dell'Est Europa), selvaggina che conosco meglio.
Credo di poter dire che le famiglie delle starne, sia quando si alimentano che quando si spollinano, delegano ad alcune di esse (le "vedette") la sorveglianza sia per evitare la sorpresa di eventuali pericoli, e l'iniziativa per le tecniche difensive o elusive da adottare.
Ed è la necessità difensiva di poter avvistare tempestivamente il pericolo che induce le starne a prediligere terreni con vegetazione adatta a celarle, ma non così alta o folta da impedire loro di scorgere per tempo il pericolo che si avvicina.
Pertanto il cane in ferma viene tempestivamente avvistato e la immobilità del cane determina la reazione istintiva delle starne di avvalersi della difesa passiva dell'immobilità.
In questo caso il cacciatore che si avvicina al cane da dietro (come avviene di regola) viene scorto dalle starne molti metri prima che giunga all'altezza del cane, ed esse si involano subito a distanza di sicurezza (fuori tiro).
Per poter giungere a tiro occorre una nuova strategia perchè le situazioni difficili esigono contromisure adeguate.
Per chiarire il concetto farò un esempio paradigmatico.
Nelle sterminate steppe dell'Est Europa la bassissima vegetazione consente alle starne di avvistare il cane da lontano, e questi, se è di buona qualità, per evitarne l'involo, deve imparare a fermarle a non meno di 30 metri, ma il cacciatore in avvicinamento avvistato già a grande distanza, ne provoca l'involo precoce.
Per questo i cacciatori locali cacciano le starne non con il cane, ma facendo dei grandi semicerchi di 10/20 persone, che avanzano sparando all'involo.
Ma le difficoltà stimolano ad escogitare contromisure e progressivamente ho capito che le "vedette" delle starne sono così concentrate sul cane fermo che trascurano di vedere cosa accade intorno e dietro di loro, e così per giungere a tiro è sufficiente fare un largo semicerchio (60/80 metri) intorno al cane e poi avvicinarsi a lui in modo da "stringere" le starne tra il cane e il cacciatore che si avvicina, obbligandole ad improvvisare una difesa diversa da quella loro congeniale.
In sostanza quello che intendo è che andare a "servire " il cane non è un semplice avvicinamento per la via più breve, ma richiede una speciale "tecnica venatoria" che ha le sue regole: occorre evitare andature veloci, tenere in conto le caratteristiche dell'ambiente, la consistenza della vegetazione, il vento, il presumibile stato di allarme o di quiete del selvatico.
Comincio dall'andatura: tutti i cacciatori sanno che i selvatici si lasciano avvicinare senza timore dagli uomini di campagna, dai contadini, dai pecorai, dai fungaioli, tutta gente che cammina lentamente a passi scanditi e che ha imparato a non temere, mentre si invola lontano dal cacciatore che riconosce dal passo energico e dalla velocità dell'andatura di avvicinamento al cane.
Per quanto riguarda il vento, di regola l'animale affida la salvezza alla velocità del volo, che è maggiore con il vento in coda, e tenendo conto di ciò il cacciatore può con una certa approssimazione prevedere la direzione della fuga.
Questi accorgimenti sono ignoti a chi ha praticato la caccia alle starne (quando ancora c'erano in Italia) perchè allora bastava solo avvicinarsi al cane fermo per sparare.
Ricordo loro che in quei tempi lontani l'ambiente faunistico era totalmente diverso, l'agricoltura si avvaleva di lavoro umano o animale, i cicli agrari (che lasciavano periodici terreni incolti) coincidevano con quelli riproduttivi dei selvatici; esistevano siepi, stoppie alte, l'antropizzazione del terreno era all'inizio e quindi i selvatici potevano ancora disporre di un ambiente che assicurava loro protezione e alimentazione e le loro tecniche difensive erano adeguate a quel tipo di ambiente.
Con l'avvento dell'agricoltura intensiva (arature precoci, sovvertimenti dei cicli agrari, fertilizzanti e antiparassitari chimici che hanno portato poi all'estinzione delle starne) anche il comportamento difensivo dei selvatici si è adeguato al nuovo ambiente che non assicura più protezione, e la difesa più efficace è divenuta l'involo a distanza di sicurezza (con una modificazione comportamentale che ormai è divenuta genetica).
Concludendo, poichè nulla avviene per caso, le modificazioni dell'ambiente comportano una correlativa modificazione del comportamento della selvaggina, e per conseguenza anche il cacciatore deve modificare la sua tecnica venatoria.
Roma, 8 febbraio 2017
Enrico Fenoaltea