Nel panorama confuso della caccia moderna, una delle lamentele più ricorrenti riguarda l’atteggiamento chiuso, categorico e formalmente privo di una seppur minima base razionale mostrato dal sempre maggior numero di detrattori della nostra sacrosanta passione.
Atteggiamento che non riguarda, purtroppo, soltanto la sfera del libero pensiero di ciascun cittadino, ma trova terreno fertile in ambito mediatico e, soprattutto, legislativo.
Cosa significhi tutto questo non è certo un mistero per noi che ci troviamo quotidianamente ad affrontare, oltre alle martellanti campagne mediatiche diffamatorie, un ostruzionismo amministrativo feroce e spesso folle, frutto della necessità di ottenere il facile consenso delle masse, ormai difficilmente raggiungibile in ambiti più seri.
Sono state scritte migliaia di pagine sulle ragioni di questo stato di cose cui, nei tempi più recenti, si vanno ad aggiungere i post e i relativi commenti sui gruppi di appassionati presenti nei social o in vari forum, tanto che sarebbe ripetitivo scagliarsi contro le dinamiche sociali e culturali che stanno affossando, insieme ad una passione vecchia come il mondo, anche un importante comparto produttivo e uno strumento prezioso, se debitamente impiegato, di gestione e monitoraggio ambientale.
Sarebbe opportuno, a mio avviso, provare ad interrogarsi su ciò che la caccia rappresenta per noi stessi, piuttosto che per la società, il cui parere credo venga già espresso a sufficienza.
Sento e leggo spesso riferimenti nostalgici al nostro passato, a pratiche e valori ormai dimenticati, al ruolo sociale che un tempo ci apparteneva ed era profondamente diverso da quello attuale; considerazioni dalle quali non posso certo dissociarmi.
Tuttavia è sufficiente guardarsi attorno con un minimo di obiettività per verificare la dissonanza esistente tra il ragionevolissimo dire e un certo fare della nostra categoria.
Non mi riferisco a quegli episodi deplorevoli che riempiono le cronache “verdi” relative al bracconaggio in tutte le sue forme, che vanno senz’altro stigmatizzati in primis da quanti ritengono necessario praticare un prelievo corretto e moralmente accettabile, ma a qualcosa di molto più sottile e, pertanto, pericoloso.
I tempi moderni hanno modificato profondamente la caccia, migliorando qualcosa qua e là e stravolgendo quasi tutto il resto, tanto che, a voler essere obiettivi,bisogna ammettere che è rimasto molto poco dell’originario spirito “avventuroso” che l’ha caratterizzata nei millenni.
Impossibile negarlo, anche per i più strenui sostenitori della tecnologia e della tanto decantata “etica”: basta scambiare quattro chiacchiere con un collega anziano per comprendere che a sparire non sono stati starne, conigli o frullini, ma proprio i cacciatori.
Inconcepibili, per la nostra generazione, i sacrifici fatti in un passato ormai nebbioso, quando il mezzo di trasporto principale era costituito dalle gambe, quando i pochi che vivevano in città erano costretti a pernottare fuori, all’addiaccio nella bella stagione o presso qualche pastore o contadino ospitale durante i mesi invernali.
Incredibile che cani di dubbia genealogia potessero rendersi in qualche modo utili per chi, oggi, è abituato a valutarne le prestazioni quasi a tavolino, semplicemente studiando le linee di sangue.
E che dire dell’abbigliamento tecnico dei giorni che furono? O del “parco fucili”del nostro antenato medio? Oppure (e qui ci facciamo del male) del tempo libero da dedicare alle scorribande venatorie in quei giorni lontani in cui la gente lavorava sul serio, senza fine settimana o weekend che siano?
Si potrà obiettare che tutto questo appartiene al progresso, che fa parte del gioco, che non ci si può cullare più di tanto sui sentimentalismi retorici di schioppi ad avancarica e baffi a manubrio. Logico. Come è logico che la nostra crisi d’identità non sia soltanto una questione di pubbliche relazioni, ma un problema principalmente interno.
Ne è prova la corsa ossessiva alla specializzazione, la ricerca di qualifiche più o meno altisonanti e classifiche che possano porci, in virtù del tipo di caccia praticato, ad un livello superiore rispetto a quello degli altri colleghi. Ci si appella di continuo a delle necessità non meglio specificate, non riuscendo tuttavia a spiegare in quale modo la promiscuità venatoria possa danneggiare la caccia stessa o i suoi praticanti, se esercitata nel rispetto delle norme vigenti.
Si rincorre, non sempre in modi condivisibili, il miraggio dell’eccellenza nelle prestazioni, ricorrendo anche alle testimonianze fotografiche, sotto forma di carnieri fiabeschi, di trofei da medaglia d’oro, di ausiliari (guai a definirli cani) infallibili, come se ci si vergognasse di quel sano approccio ludico che un tempo costituiva la parte migliore di questa attività.
Il tutto coronato da un’aura moralista degna degli anni più oscuri dell’Inquisizione, il cui unico risultato, ben lungi dal renderci amabili agli occhi di una umanità sempre più inviperita, è stato finora quello di creare ulteriori attriti all’interno della nostra compagine. Bisogna tornare al passato, abiurare i tessuti sintetici in nome del fustagno, disertare fiere, prove di lavoro, raduni, “piattellate” e cene sociali preferendo selve e pantani?
Non necessariamente.
Ma non sarebbe male rispolverare un po’ di quella solenne leggerezza che è stata un marchio di fabbrica per tante generazioni, rendendo questa passione un percorso di vita, piuttosto che un semplice passatempo. Quella visione che, da una parte, imponeva una disciplina severa e un rigoroso rispetto della preda, dei colleghi e dell’immagine stessa che si offriva agli altri; dall’altra, la gioiosa consapevolezza che poter godere delle emozioni offerte dallo spensierato vagabondare dietro i cani, o dalle lunghe attese al capanno, in un chiaro, alla posta è di per sé una ricompensa cui nulla va aggiunto.
È paradossale che, proprio adesso che la nostra dieta è, fortunatamente, svincolata dall’esito più o meno fausto di una battuta, ci si debba accanire sul risultato finale, perseguendolo con un’ostinazione a volte puerile, dileggiando chi non ha avuto pari fortuna o talento, e sventolando la bandiera di un merito solo immaginario sul proprio personale campanile.
Non è certo stato soltanto questo a condurci sull’orlo dell’abisso attuale: mi guardo bene dal dirlo. Ma esserci concentrati troppo su ciò che gli altri pensano, e troppo poco su quello che pensiamo noi, di sicuro non ci ha giovato.