Imponente massiccio granitico, l’Aspromonte occupa il centro nevralgico della provincia reggina, sfiorando in alcuni punti, con le sue propaggini, le acque del Tirreno o dello Jonio, mentre raggiunge la parte più alta con la cima Montalto di 1955 metri s.l.m.
I versanti sono caratterizzati dalla presenza a vari livelli di terrazzi, talvolta molto vasti, che si estendono tutto in giro al massiccio e chiamati i “Piani dell’Aspromonte”, collocati tra 700 e 1100 metri s.l.m., una volta intensamente coltivati a granaglie ed oggi a poche colture originali e ad ortaggi.
Caratteristica è l’idrografia formata, generalmente, da brevi e rapidi torrenti e fiumare.
Mentre le parti basse, intensamente antropizzate, sono sovrastate da estesi oliveti ed agrumeti, nelle zone più alte dominano i castagneti, querceti e poi via via agli abeti,i pini, i faggi, in un susseguirsi più o meno “aspro” di boschi ed ampie spianate.
Le zone stabilmente abitate si fermano a 900 metri, salvo Gambarie che a 1330 m. è l’unica stazione attrezzata per gli sport invernali.
Nel 1989 con la costituzione del Parco Nazionale dell’Aspromonte, confluito nel Parco Nazionale della Calabria assieme a quelli della Sila grande e della Sila piccola,
sono stati sottratti – alla sola provincia reggina - 76.000 ettari di straordinari territori di caccia, mentre prosegue, imperterrita, l’espoliazione del patrimonio forestale, la raccolta dei funghi, la pastorizia, così come le attività agricole non biologiche e naturalmente il disinteresse più assoluto nei confronti della fauna, tanto è vero che se si “clicca” sul sito ufficiale tra la fauna autoctona del Parco troviamo solo pochi nomi, fra cui: scoiattolo nero, dromio, gufo, aquila e biancone!!!
I territori liberi dell’Aspromonte reggino – ormai da tempo dunque - non ospitano più alcun selvatico stanziale, tranne il cinghiale (solo pochi mesi fa è stato reintrodotto un “gruppo” di caprioli. n.d.r.).
La lepre appenninica e la splendida coturnice sono un lontano ricordo ed ormai anche tordi e beccacce, una volta più abbondanti che altrove durante il passo, da anni sono in netta flessione e non garantiscono le antiche emozioni, se non in via del tutto eccezionale.
Diciamo pure che le carenze organizzative, tipiche della gente del sud che ha sempre considerato la caccia come una “dote” costituzionale, hanno compromesso quello straordinario patrimonio di selvaggina che popolava le montagne calabresi.
Solo il cinghiale - come dicevamo - per la sua rusticità riesce ancora a sopravvivere e concedere alcuni giorni di soddisfazione alle numerose squadre di cacciatori.
Anche se i territori superstiti sono limitati per l’occupazione del Parco, è assolutamente necessario tentare in tutti i modi sia il recupero delle zone libere, sia iniziare un dialogo con le autorità competenti per rilanciare, nel Parco stesso, le specie idonee ad una rivalutazione faunistica e soprattutto gestionale del territorio con la speranza che un giorno, con la promessa “riperimetrazione” e/o con la naturale diffusione oltre i confini, tali selvatici potranno essere ammirati e, perché no, anche cacciati secondo le regole della selezione.
Per far questo il percorso è assai lungo: indispensabile, in primo luogo, che anche il cacciatore calabrese acquisisca quelle doti di “gestore” del proprio territorio come ci insegnano ormai da tempo non solo i cacciatori delle altre nazioni, ma anche quelli dell’Italia centro-settentrionale.
La selvaggina intesa come il bene della Provvidenza non esiste più a causa della impari competizione con l’uomo ed è quindi necessario che chi vuole dar seguito a quest’antica passione partecipi attivamente alla risoluzione dei problemi annessi e connessi e solo se e quando sarà indispensabile un intervento umano, questo potrà essere delegato al selecontrollore abilitato che preleverà quanto gli viene assegnato.
Un altro passaggio essenziale di questo percorso riguarda l’estensione dei concetti di gestione e di rapporto territorio-selvaggina anche alla selvaggina migratoria che rappresenta il presente laddove la stanziale e soprattutto gli ungulati possono costituire il futuro.
Una buona gestione ed un controllo numerico dei transiti e dei prelievi si verifica solo dove le regole vengono applicate rigorosamente, ad esempio nelle A.F.V., oppure laddove vi sono appostamenti fissi, ovunque, insomma, vi è organizzazione. Per riacquisire il privilegio di praticare la caccia secondo i canoni che ci erano stati tramandati dai nostri avi.
Oggi vi sono altre prospettive e non è più un’utopia sognare di nuovo le nostre montagne ricche di lepri e di coturnici come e più di una volta, basta volerlo.
Le moderne tecniche di ripopolamento consentono di reintrodurre i selvatici che furono del nostro territorio e far si che pian piano possano riprodursi allo stato libero riacquistando rusticità e difese naturali.
L’uomo, il cacciatore vero, dovrà sorvegliare ed intervenire fino a quando la specie avrà bisogno di assistenza e potrà prelevarne, al tempo opportuno, senza alterarne, però, la consistenza di base. Questa è la forma di caccia auspicabile per il terzo millennio.
Ma la proposta più affascinante sarebbe quella di utilizzare le strutture del Parco per la introduzione di quegli “ungulati” che ormai fanno parte integrante dei territori appenninici, ma che in Calabria rimangono un sogno, nonostante l’Aspromonte non abbia nulla da invidiare alle più rinomate montagne slovene o austriache.
Per le caratteristiche orografiche la fascia tirrenica più verde e meno rocciosa, potrebbe essere destinata al capriolo, appena timidamente reintrodotto, specie che non presenta alcun problema di ambientamento e che potrebbe rapidamente riempire di contenuti vasti ed incontaminati territori, da troppo tempo ormai senza vita.
La fascia jonica, più aspra, rocciosa, talvolta arida, ma che alle quote più alte diventa verde e boscosa, appare vocata per il muflone.
Questa bella pecora selvatica (ovis musimon) dalle caratteristiche corna a spirale, dal peso di 25-50 kg, com’è noto e’ originaria dalla Sardegna da dove e’ stata introdotta con successo in tutta Europa adattandosi a qualsiasi ambiente e pur preferendo proprio quello roccioso, gradisce il bosco e le aree incolte e si adegua moltissimo alle disponibilità alimentari presenti nel territorio.
Come per le grandi pecore asiatiche (urial, argali, ecc.) la caccia, si effettua essenzialmente “alla cerca” ed e’ quindi molto caratteristica e sportiva. I calibri dedicati non sono prudenzialmente inferiori al 6.5 mm ed è anzi opportuno, a mio giudizio, l’utilizzo di un buon 7 mm per le doti di resistenza dell’animale.
Per poter praticare queste cacce e’ indispensabile essere profondi conoscitori del territorio, delle abitudini della selvaggina e di conoscerne la consistenza numerica e le caratteristiche bio-morfologiche. L’approssimazione, la superficialità, la mancata conoscenza non possono coniugarsi con la caccia di “selezione” agli ungulati.
Questo tipo di caccia, che fa parte delle grandi tradizioni venatorie austro-ungariche, nonostante annoveri detrattori anche tra i nostri colleghi si e’ diffusa presto in tutto il mondo ove tali selvatici sono spontaneamente presenti e, da oltre un decennio, anche nell’appennino centro-settentrionale coinvolgendo sempre più appassionati.
Tutte le regioni interessate hanno istituito corsi teorico-pratici per la caccia di selezione e sono sorte, come in zona Alpi, associazioni venatorie dedicate come l’U.R.C.A. (Unione Regionale Cacciatori Appennino) che promuovono ed assistono queste splendide cacce.
Come si è potuto affermare in vari convegni e riunioni, la caccia di selezione in Calabria può essere davvero a portata di mano se è vero che questi selvatici non possono ormai mancare nelle montagne dell’Aspromonte.
L’attività gestionale del territorio e delle popolazioni animali presenta peraltro, perché negarlo, una serie di risvolti socio economici niente affatto trascurabili per una regione ancora lontana dagli standard europei come la Calabria: l’attrazione per il naturalista osservatore da un lato e la fonte alimentare alternativa dall’altro che costituirebbero gli ungulati in Aspromonte, avvierebbero importanti spinte utili al rilancio turistico e gastronomico delle comunità montane.
I motivi di una scelta di questo tipo sono dunque molteplici ed è auspicabile che, in primo luogo, ispirino gli amministratori distratti e lontani dalle esigenze dei cittadini, prim’ancora che dei cacciatori.
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