Si tratta di distinguere, ovviamente. La passione, quella per la caccia è un concetto molto positivo, almeno per noi cacciatori. La passione intesa come sofferenza, invece, non si dovrebbe augurare a nessuno. Se non per rafforzare il carattere. Più si soffre e più si cresce, si dice.
Come cacciatori, in questi ultimi decenni, della passione del secondo tipo ne abbiamo consumata a bizzeffe. Un po' meno di quella del primo tipo. Se c'è una categoria che invece ne ha misurata sia del primo sia del secondo, è quella, anzi, sono quelle dei cinghialai e dei cacciatori di selezione.
Facciamo un po' d'ordine.
Cinghialai. Sono sulla cresta dell'onda, da tempo. Tant'è vero che in questi ultimi anni hanno ingrossato le schiere attingendo un po' da tutte le altre categorie, migratoristi, stanzialisti, cinofili. Perchè? Perchè, come dicono le cronache, il cinghiale è una specie che nel bene e nel male segna un incremento costante. Perchè costante? Gli animalisti - e questo ci fa soffrire - ci accusano di averne favorito la prolificazione. Secondo me lo fanno soprattutto per mascherare i fallimenti di una politica ambientale, basata sulla parcomania, che ha di fatto costituito dei santuari dei cinghiali (e non solo) in tutte le aree del paese protette o inibite alla caccia, che per legge devono superare almeno il 20% della superficie agrosilvopastorale, ma di fatto, in molte regioni e province, questa percentuale si avvicina più al 30 che al 20, in alcune arriva anche al 70%. E qui sta la croce, insieme alla delizia. Delizia per chi fa festa sulle disgrazie degli agricoltori che lamentano danni ingenti, ma anche per tutti coloro che dal cinghiale vorrebbero trarre soddisfazione (gli stessi agricoltori, animalisti/ambientalisti). Croce, appunto, per coloro che da questo bendiddio vedon calare anche infiniti guai. Agricoltori di aree di pregio (ad alto reddito), allevatori che segnalano con preoccupazione l'incremento delle scorrerie dei lupi, cresciuti a dismisura in parallelo alle popolazioni di cinghiali, cinghialai stessi, che si preoccupano della crescita di consensi nei riguardi di una caccia alternativa, quella di selezione, sempre più spesso riproposta come "prelievo", quindi tecnicamente non ascrivibile all'attività venatoria ma al rispeto degli equilibri interspecifici, sponsorizzata da variegati stakeholders, tipo operatori specializzati, tecnici, scienziati, enti cosiddetti di ricerca, trasformatori e commercianti di carni, opinionisti. Qualche ambientalista, anche.
Tutto questo si traduce in sofferenze, palesemente riportate nell'a volte aspro dibattito ingenerato in particolare dalla cosiddetta legge obiettivo adottata per tre anni in Toscana, ma atta ormai a precorrere provvedimenti analoghi in altre aree del paese (anche attraverso specifici provvedimenti di legge presentate in Parlamento).
Legge obiettivo, che - se adottata nella sua primigenia impostazione - a detta di molti potrebbe da una parte portare allo smantellamento di un sistema di presidio, dall'altra non risolvere il problema che l'ha generata, ovvero l'abbondanza dei cinghiali che provoca disturbo grave - dicono - alle attività agricole.
Selettori. Ormai si considerano orgogliosamente l'elite della caccia, perchè hanno stile, preparazione, e tendono ad assomigliare ai cacciatori del nord e dell'est d'Europa. Una via di mezzo fra Cecco Beppe e Carlo d'Inghilterra. In sintonia con ISPRA, Federparchi, Uzi, faunisti, Legambiente, Asl e veterinari, chef anche stellati, tengono a modello l'Uncza, i cacciatori della Zona Alpi, che godono sicuramente di un notevole prestigio, analogamente all'Urca, i più modesti selettori dell'Appennino, che si sforzano di emulare i cugini con la penna di forcello sul cappello tirolese. La forma di caccia che esercitano è sicuramente più adatta alle difficili narici di certi ambientalisti. Prelievo chirurgico, carne ricavata che non comporta problemi sanitari di base, selvatici - per ora in gran parte caprioli, cervi e qualche daino e muflone: carne sicuramente pregiata - non stressati, selezione pianificata in funzione di un corretto assetto faunistico. La categoria ideale per trovare la quadra fra tecnica, politica, territori, società.
Con un però, però. Oggi l'assetto venatorio che riguarda la gestione degli ungulati, è orientato - sia nel numero sia nelle attività - a favore dei cinghialai organizzati in squadre. Che presidiano il territorio, amministrano il patrimonio cinghiale (soprattutto, ma non solo), hanno peso politico, assolvono a funzioni di gestione complessiva, tenendo ancora vive molte aree dell'Appennino che altrimenti soffrirebbero di condizioni di abbandono, fanno manutenzione del bosco e delle diverse problematiche (in sintonia con la protezione civile, per il ripristino dei sentieri, la prevenzione incendi, la collaborazione nei casi di emergenze calamitose). Magari provocano mal di pancia ai migratoristi e ai beccacciai, che almeno un paio di volte alla settimana sono prudentemente invitati a desistere dalla loro attività (passione) soprattutto per ragioni di sicurezza. Nel periodo canonico (quello del passo), perchè dopo, almeno in parte consistente, migratoristi e beccacciai si reinventano bracchieri (battitori, canai) e postaioli.
La morale? Sintesi. Indirizzata al superamento di una congiuntura che vede le diverse categorie di "appassionati" in evidente dissenso, mentre una leadership (associazioni, in particolare le principali e più autorevoli) più accorta, che guardasse un po' più in là delle scadenze dei tesseramenti (e dei calendari) e provasse a disegnare un futuro che produca la soddisfazione di cinghialai, selettori, ma anche di migratoristi e stanzialisti, potrebbe essere la soluzione, in armonia con le comunità locali, gli agricoltori, un'opinione pubblica più consapevole.
Insomma, dare valore alle diverse passioni (venatorie), cercando di riportare a dimensioni fisiologiche quell'altra passione (disagio) che non giova a nessuno.
Fausto Parrini