Il patrimonio faunistico, lo sanno tutti, non si salva chiudendo la caccia, ma garantendo alla selvaggina (fauna selvatica) un ambiente sano e ricco. Il legislatore da sempre ha provato ad adempiere a questo imperativo. Spesso, purtoppo, costituendo (sulla carta) aree protette, interdette alla caccia e dimenticandosene immediatamente, nella fase successiva che come appunto sappiamo comporta una adeguata gestione virtuosa.
Le direttive, uccelli, habitat, natura, hanno provato a imporre gli stessi obiettivi, purtroppo con lo stesso risultato, culminato quasi sempre col tentativo di chiudere la caccia e dimenticarsi del resto. Secondo le stime, in Italia abbiamo superato il 10% del territorio coperto da aree protette, e questa è una ragione dell'incontrollato aumento degli ungulati, che nei periodi di caccia aperta là si rifugiano, stante l'anarchia che non di rado vi regna, e la legge che non fa da freno, o quasi, alle speculazioni di tutti i generi, tranne che stigmatizzare ideologicamente la caccia, senza un minimo di oggettività.
Nei parchi e nelle aree protette alligna e cresce un'altro tipo di fauna protetta, quella che va ad infoltire a dismisura i consigli d'amministrazione, i comitati di gestione, le squadre di consulenti. Quasi sempre è costituita da soggetti che si collocano socialmente alla voce "ambientalisti". A volte senza nessun altro titolo o merito.
Non paghi, gli stessi bussano a cassa millantando crediti di protettori di fauna e ambiente "in proprio". WWF e Lipu si fanno vanto di gestire le cosiddette oasi, con tanto di simbolo all'ingresso. Una goccia nel mare, se si pensa che il Panda ha al suo attivo 30mila ettari in tutta italia, mentre l'Upupa fa bella mostra di se a guardia di 7mila ettari al massimo. Sostenuti in gran parte dalla mano pubblica, con non poca quota che sembra derivi dal 50% degli introiti delle licenze di caccia che lo Stato assegna (dovrebbe assegnare) per legge alle Regioni per finanziare progetti di conservazione.
Tutto fa, avrebbe detto quello che - appunto - dava il suo contributo personale alla conservazione del livello degli oceani. Ma, onestamente, per la conservazione degli habitat fanno molto di più i cacciatori, che anche in termini quantitativi surclassano di gran lunga sia gli ambientalisti, sia probabilmente anche la mano pubblica nel suo complesso, se si pensa che solo in Toscana gli istituti faunistici gestiti grazie alla caccia ((ZRV, ZRC, Aziende Faunistico Venatorie, Aziende agrituristico venatorie, Zone Addestramento Cani) coprono oltre 400mila ettari di territorio.
Non sarebbe male se si cominciasse a farlo sapere in giro. Che dite?
Forse potrebbe essere anche questa la carta da giocare con la politica, e con l'opinione pubblica, per far sapere a tutti quanto ci diamo da fare per la conservazione degli habitat, per la tutela del patrimonio faunistico, per la salvaguardia del territorio in genere. Bene lo sanno i sindaci e le autorità dei comuni di provincia, quando ai cacciatori ricorrono per risolvere molte emergenze dovute agli eventi climatici, ai terremoti, agli incendi boschivi, alla cattiva gestione delle rare residue zone umide. Alla sicurezza.
Infatti, il problema non l'abbiamo in provincia, ma nelle metropoli, dove la gente è ormai prigioniera del cemento e l'unica realtà naturale di cui ha percezione diretta la trova sugli scaffali dei supermercati: polli e conigli nel cellofan, uova nelle vaschette, latte in bottiglia, e vino e olio, verdure, frutta, legna da ardere, carbone per il barbecue (sul terrazzo). Senza sapere niente del percorso (a volte di migliaia di chilometri) che questa merce ha fatto per arrivare fino a lì, senza avere un'idea o un confronto sulla fatica, sui costi, sui sacrifici di tutta quella gente che ancora si sporca le mani per fornire benessere a questa massa amorfa di consumatori.
Il mondo è cambiato, ne dobbiamo prendere atto, ma nello stesso tempo ci dobbiamo convincere noi prima di tutti che siamo indispensabili per conservare quel barlume di umanità che per millenni, nel bene e nel male, a contatto con il "naturale" ha tenuto insieme la nostra specie, nel precario equilibrio fra istinto e ragione.
Antonio De Marchi