Esistono animali per i quali il mito non è abbastanza: non si accontentano di affollare i sogni del cacciatore, ma si spingono fino ad avvisare l'uomo della realtà di tutti i giorni. E' il caso della coturnice, ad esempio: la regina delle vette non è soltanto il selvatico da penna più raro e difficile da insidiare, ma rappresenta uno dei bioindicatori più sensibili e dunque attendibili per la nostra montagna. E proprio come il suo regno, la coturnice sta soffrendo. Abbandonata come lo è la montagna, la sua regina risente in maniera drammatica della scomparsa dei pascoli, delle colture in alta collina, del progressivo rimboschimento che si riprende i prati sommitali, in estrema sintesi della perdita, da parte dell'uomo, delle sue origini e tradizioni millenarie.
Difficile, nell'epoca del "5G", ipotizzare un'inversione di tendenza e conservare i crismi dell'attendibilità. Purtroppo la specie umana viaggia a rotta di collo verso l'estrema urbanizzazione, con numeri demografici impossibili da contrastare. Ciò non vuol dire, tuttavia, che non si debba porre mente alla montagna se si vuole evitare, un domani, che proprio dalle alture arrivino i problemi più seri per le comunità. Frane, smottamenti, incendi: tutti fenomeni che possono essere ridotti, prevenuti e controllati se si pongono in essere azioni utili alla salvaguardia delle sommità. Il che, guarda caso, coincide anche con la salvaguardia dell'habitat della coturnice.
La pulizia dei fossi e dei canali di montagna, per esempio, contribuisce a incanalare a dovere l'acqua piovana evitando il pericolo di smottamenti e, al contempo, favorisce la "viabilità" in risalita delle coturnici, offrendo loro rifugi sicuri ove riparare difendendosi dai predatori. Allo stesso modo, lo sfalcio degli erbatici alti e secchi si sostituisce all'assenza di pascoli ovini, un tempo abbondanti sulle Alpi e sugli Appennini: attraverso questa operazione si argina notevolmente il pericolo che si propaghino gli incendi durante la stagione estiva e, contemporaneamente, si favorisce la ricrescita dei germogli, di cui le coturnici si nutrono. E ancora: piccole colture a perdere in montagna, fossero anche di poche centinaia di metri quadri di estensione - ad esempio maggese fiorito -, contribuiscono a creare il giusto habitat per migliaia di insetti, indispensabili per la nutrizione e lo sviluppo dei nuovi nati durante le prime settimane di vita. Non solo. Questi piccoli appezzamenti, realizzabili dal punto di vista legale anche ad altitudini considerevoli - dato che a livello catastale molte aree montane risultano ancora classificate come "agricole" -, offrono rifugio, riparo e nutrimento a una vasta gamma di specie animali, sia cacciabili sia protette: dalla lepre ai piccoli passeriformi, passando per i piccoli mammiferi e i già citati insetti di ogni ordine e grado, contribuendo così alla biodiversità senza che vengano spesi milioni di euro in progetti costosi quanto fallimentari. Inoltre, curare un terreno agricolo posto in montagna significa anche poterlo ripulire dalla vegetazione infestante, vale a dire ginestra e - più su - ginepro. E' chiaro che si tratta di operazioni, quelle appena descritte, che comportano l'impiego di tempo e risorse economiche: ecco perché ogni singola regione, ogni singolo Atc farebbe bene a impiegare in tal senso parte dei soldi che si buttano, invece, ogni anno per i ripopolamenti "pronta caccia". E, a dirla tutta, non è che ce ne servano poi così tanti, di soldi.
Riguardo la fauna presente in montagna, senza dubbio andrebbe contrastata con metodi drastici la presenza del cinghiale oltre i 1300-1400 metri di quota. I danni arrecati dal suide alle giovani nidiate sono irreparabili, e le perdite impossibili da sostituire nel corso della stagione. Senza dubbio utile, poi, sarebbe l'immissione in altura di consistenti nuclei di starne selezionate, vale a dire provenienti da allevamenti certificati o - ancora meglio - di cattura. In questa maniera i predatori naturali della coturnice - aquila, volpe, grossi falchi, corvidi di ogni ordine e grado (questi ultimi soprattutto per le uova e i pulcini) - diversificherebbero la loro pressione venatoria, offrendo respiro alle popolazioni di Alectoris, specialmente durante il delicato periodo post-riproduttivo.
Quanto alle cotorne, non è certo un mistero, versano in condizioni di sempre maggiore isolamento, con una progressiva riduzione degli habitat e una conseguente assenza di contatti tra i vari nuclei che perdura ormai da decenni. Ecco perché, ora più che mai, è fondamentale che le aree protette si "scambino" fra loro quante più coppie possibile di coturnice, attraverso catture mirate durante la primavera. Soltanto così si può nutrire una speranza concreta di rinsanguare le varie popolazioni, salvandole dall'eccessiva consanguineità nella quale versano attualmente. Non è un caso, infatti, che le brigate di coturnice che si incontrano in montagna si fanno via via sempre più rare e meno consistenti dal punto di vista numerico. La consanguineità spinta determina un successo riproduttivo minore rispetto alle condizioni normali, con una media di nuovi nati che si attesta ormai, di regola, intorno ai 3-5 per coppia. Ciò significa dire addio alle brigate da 10-12 elementi, quelle che - per intendersi - ti butta(va)no a terra col loro frullo; ma, soprattutto, è un chiaro segnale d'allarme circa lo stato di salute e conservazione della specie che, pur protetta in lungo e in largo praticamente sull'intero territorio nazionale, non riesce a invertire la tendenza verso il declino, nella quale è progressivamente piombata a partire dalla fine degli anni Settanta.
Ancora una volta, escludere una specie dal calendario venatorio oppure apporre un cartello con su scritto "Divieto di Caccia" non equivale a proteggere, men che meno a tutelare. Senza un'oculata e pragmatica gestione della montagna, la coturnice è destinata a scomparire: e, con essa, la cultura che ci ha condotto sin qui attraverso i secoli.
Daniele Ubaldi