Non è possibile parlare di caccia, al giorno d'oggi, senza soffermarsi sulla questione etica e morale. Dietro a questa passione, che è molto più (e molto altro!) di uno sport, pur inserendosi ovviamente a buon diritto tra le attività hobbistiche e ludiche, c'è una filosofia ben delineata, intrinsecamente legata al rispetto e alla conoscenza della natura. Senza dubbio da un punto di vista religioso (cristiano, ma non solo) il cacciatore è custode del creato, e dunque qualcuno che anche nell'era dell'individualismo e dell'estraniazione dal contesto naturale, riesce a ricollegarsi alle origini, a quel primordiale patto con la divinità rappresentato già nelle pitture rupestri di 20–30 mila anni fa. Questa sacralità, al di là dei dogmi religiosi, è il comune denominatore di chi ancora oggi pratica la caccia, che nel concreto si applica e vive in una visione responsabile e di cittadinanza attiva. L'etica del cacciatore moderno, che i più non sanno vedere e riconoscere (non avendo forse i riferimenti culturali necessari), altro non è che l'estendersi e il perpetuarsi di quell'antico rapporto di interdipendenza e rispetto fra gli esseri viventi.
Facciamo un salto indietro nel tempo, andiamo a più di trenta anni fa per trovare l'origine di quel filone verde che andava organizzandosi per proporre l'abolizione della caccia. Fu l'inizio di una stagione referendaria, che poi venne combattuta strenuamente da un mondo venatorio temporaneamente unito (Unavi). Siamo nel 1987, quando l'Ispes, sotto la direzione di Gianmaria Fara, pubblicò la sua prima indagine sociologica sul popolo dei cacciatori, che all'epoca contava ancora intorno al milione e mezzo di cacciatori, con un giro d'affari intorno ai tremilamiliardi di lire e dava lavoro almeno a 33 mila persone. Già all'epoca si parlava di futuro incerto per la caccia, a causa della comparsa dell'agricoltura industriale, dell'inquinamento ambientale e dell'invasione del cemento. Ma anche di quei crescenti fattori culturali che avrebbero determinato l'affermazione dei movimenti animalisti. Il titolo di quel volumetto, redatto a seguito di un sondaggio d'opinione nel bel mezzo della stagione referendaria anticaccia, era "I cacciatori: chi pratica e perché si pratica la caccia". A curarne l'edizione c'era il sociologo Alberto M. Sobrero, ancora oggi docente di Antropologia culturale presso il Dipartimento di Glottoantropologia dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Vi si leggono considerazioni illuminate, che ben spiegano quel collegamento, mai interrotto, tra l'uomo raccoglitore/cacciatore e il cacciatore/ambientalista di ieri e di oggi. “L'atteggiamento del cacciatore nei confronti della natura è tendenzialmente pratico-manipolatorio; il cacciatore vive, gestisce la natura, la fauna, come qualcosa su cui operare, nel rispetto delle sue leggi, ma anche con una chiara percezione della posizione del tutto particolare che l'uomo ha nel complesso ambientale. La caccia diviene mediatore simbolico grazie al quale si attua il necessario travaso; la natura cede la vitalità e la cultura vi inserisce la socialità, i valori, le regole certe. Grazie a questo scambio la “selva” viene addomesticata e la comunità umana rivitalizzata. E' questo lo scopo fondamentale della caccia, è questo che spiega la sua vitalità nei secoli, ben al di là della sua funzione di risposta a bisogni economici”.
Dall'altra parte gli altri. Quelli che della caccia non conoscono nulla ma che vi si oppongono. Ovvero “l'uomo urbano”, che Sobrero descrive come un individuo che “tende sempre più a lavorare solo su se stesso e sull'interiorità dell'altro, fino all'esaperazione, fino a porsi di fronte alla natura in posizione esclusivamente estetica, come di fronte ad una realtà inviolabile, da preservare. E il rischio in questo caso è quello di non riconoscere la specificità della collocazione dell'uomo nella natura”.
Come finì quella battaglia animalista lo sappiamo bene. E se si uscì da quella morsa a testa alta fu anche e soprattutto perché si affrontò il problema in maniera unitaria, facendo leva sui valori economici, culturali e sociali di questa passione vecchia come il mondo, ma viva finché la natura continuerà ad avere i suoi spazi, perché parte stessa di ciò che siamo tutti. Ricordarsi di ciò che è stato fatto in passato, o scoprirlo, soprattutto per chi non c'era, può aiutarci a trovare il bandolo della matassa in questo clima di incertezza politica e culturale.
Cinzia Funcis